L’accusa

Yvan Attal

Alexandre, figlio di due eminenti intellettuali francesi, rientra a Parigi dall’America (dove studia all’università) e si reca a una festa con Mila, figlia del nuovo compagno della madre. Il giorno successivo Mila denuncia Alexandre per stupro, distruggendo l’armonia familiare e mettendo in moto di un’intricata macchina mediatica-giudiziaria sulle opposte verità.

Les choses humaines
Francia 2021 (138′)


Missione impossibile: raccontare un caso di stupro senza prender parte né per la vittima né per l’accusato, anzi dedicando loro due parti distinte del film. Per esplorare i rispettivi punti di vista. Ma anche «perché lo spettatore abbia il tempo di affezionarsi a loro. Volevo sapere da dove venivano, chi erano, come entrambi avevano passato la serata che precede il dramma, perché lei riteneva che lui l’avesse stuprata e lui credeva che lei fosse stata consenziente», spiega il regista Yvan Attal. Dettaglio non secondario: l’accusato è il figlio del regista, Ben Attal; sua madre è interpretata dalla sua vera madre, Charlotte Gainsbourg; mentre l’intero caso poggia sulla differenza di classe, educazione e mentalità che separa i protagonisti.
Lei, Mila (Suzanne Jouannet), liceale timida e malinconica, famiglia come tante, cresciuta nell’ortodossia religiosa da una madre molto praticante; lui invece, Alex, studente modello di ritorno a Parigi da Stanford, colto, brillante, sensibile, disinibito, figlio di genitori separati ma molto in vista, padre donnaiolo e celebre giornalista tv (Pierre Arditi), madre intellettuale e star del femminismo (Gainsbourg). Nonché, a rendere tutto ancora più scivoloso, nuova compagna del padre di Mila, professore di letteratura (Mathieu Kassovitz). Complicato da questo retroterra familiare (vite e carriere dei genitori di lui sono evocate con tratto veloce e un poco insistito), L’accusa potrebbe scadere nella sociologia facile o nella condanna sommaria. Ma Attal, che prima di adattare il romanzo di Karine Tuil Le cose umane (La nave di Teseo) ha condotto un’accurata inchiesta sul campo, schiva il pericolo concentrandosi soprattutto sui due ragazzi. Con un’attenzione minuta ai gesti, i silenzi, le aspettative, le contraddizioni, insomma le personalità dell’una e dell’altro, che è il primo pregio di un film sempre sul filo del rasoio. E davvero coraggioso nel portarci senza parere da un caso particolare come questo a un problema generale: cosa significa stupro, oggi, sul piano umano ancor prima che su quello giudiziario (anche se buona parte del film è dedicata al processo)? Che tipo di cultura lo alimenta, lo giustifica, talvolta lo imbelletta o lo camuffa? Domande che Attal ha il merito di porre senza alzare la voce, ma con chiarezza. E senza mai dimenticare la pietas.

Fabio Ferzetti – L’espresso

Una violenza – vera o presunta – e quel che ne consegue. Un processo, i media che riportano ogni fatto, i social network che amplificano ogni umore. L’accusa è un film tragicamente attuale per tema, messa in scena, contesto. Una nota famiglia altoborghese parigina è sconvolta da un possibile stupro. O da una menzogna? La nuova opera di Yvan Attal è tratta da un romanzo di successo di Karine Tuil e ha un cast perfetto. Da Charlotte Gainsbourg a Mathieu Kassovitz.
Il giovane francese Alexandre Farel (Ben Attal) studia ingegneria a Stanford, California. Torna a Parigi per prendere parte a una cerimonia in onore del padre Jean (Pierre Arditi), noto giornalista televisivo. Viene invitato a cena dalla madre Claire (Charlotte Gainsbourg), intellettuale femminista, che ha da poco lasciato il marito. Il ragazzo conosce così Mila (Suzanne Jouannett), figlia di Adam (Mathieu Kassovitz), nuovo compagno di Claire. La sera stessa, i due giovani vanno insieme a una festa. Il giorno successivo Alexandre viene arrestato, accusato di stupro da Mila. Cosa è successo veramente?
Il film mette a fuoco efficacemente un tema “ultrasensibile” in modo disturbante e mai banale o didascalico. Lascia allo spettatore il compito di ripensare e giudicare ogni cosa. Senza colpi di scena rivelatori. Nell’epoca della sopraffazione e della dominazione dell’altra/o, Attal riflette potentemente sulla “banalità del male”. Sulle peggiori azioni (dis)umane. Di violenza fisica e verbale. Ma anche sull’ottusità di sguardi, o pro o contro, come tifoserie o fazioni. Nella realtà narrata, la ricerca della verità e della giustizia a tratti paiono restare, come spesso accade nella quotidianità, un mero dettaglio sullo sfondo. Qualcosa di marginale. Il pubblico è invece spinto a chiedersi incessantemente “cosa è giustizia?”, “dove è giustizia?”.

Tratto dal romanzo Le cose umane di Tuil, ispirato a un vero caso di stupro avvenuto nel campus universitario di Stanford nel 2015. L’accusa si avvale di un impianto drammaturgico solido. Su una regia sorprendente e “distaccata” (lascia a noi “giudicare”…). Sorprende soprattutto perché Attal, fino a oggi, aveva diretto solo commedie, per quanto spesso amare. Nel dramma realistico-processuale riesce a muoversi con mestiere, evitando però il già visto, prendendo sempre vie inattese. Più che la violenza del singolo fatto di cronaca, indaga la violenza dei rapporti uomo/donna. Un «no» mai pronunciato a parole significa consenso? La Legge può davvero giudicare e valutare “le cose umane” del titolo originale francese?

Luca Bernabé – amica.it

 

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