È il 1920, anno in cui Luigi Pirandello, durante un viaggio in Sicilia, incontra Onofrio Principato e Sebastiano Vella, due teatranti che stanno provando con gli attori della loro filodrammatica un nuovo spettacolo. L’incontro tra il geniale autore e i due dilettanti porterà grandi sorprese.
Italia 2022 (103′)
A partire dalla stimolante idea di mettere insieme due comici puri come Salvo Ficarra e Valentina Picone e un attore di elevata statura teatrale e di fama internazionale come Toni Servillo, La stranezza mostra un Pirandello pressoché inedito rispetto alle consuete narrazioni scolastiche sull’autore e giocoforza anche più intimo e chiaroscurale: ossessionato da un’idea strana e ancora indefinita, la creazione di una nuova commedia ma anche la “stranezza” chi fa riferimento il titolo, il letterato siciliano raccontato nel film di Roberto Andò è immerso in ore inquiete e febbrili durante le quali si susseguono visioni spettrali, ricordi, malinconiche apparizioni. In questo contesto germoglia un film senz’altro canonico e spesso irrigidito dalla letterarietà di partenza, ma nel quale risuonano al contempo echi profondi e interessanti. Ciò avviene soprattutto a partire da quella che viene presentata come una fisiologica e virtuosa commistione, non scontata ma più che mai necessario per progredire artisticamente, tra alto e basso, tragico e comico, luttuosità e risate. Con queste premesse dicotomiche, La stranezza si configura a tutti gli effetti un film sul potere taumaturgico dell’ispirazione, immerso in una Sicilia carica di sfumature e non di rado mortifera e fantasmatica, ma anche sul dialogo tra realtà e finzione, spettatori e palcoscenico, dimensione pubblica ed esercizio privato e intimo dell’essere artisti e cittadini. Tutti questi aspetti si ritrovano a interloquire fortemente gli uni con gli altri, e perfino a “condividere la scena” forzatamente ma anche miracolosamente, proprio come il duo di becchini interpretato da Ficarra e Picone si rapporta con Servillo: se l’attore campano colpisce nel segno con la sua sussiegoso misura, nella quale l’oscurità e il cipiglio dello sguardo sono ravvivati dalla fiamma dell’ispirazione da setacciare e ravvivare, i due attori e e comici palermitani danno finalmente prova del loro talento e di una lampante, sorprendente e articolata sensibilità tragicomica, estendendo il respiro delle proprie interazioni rispetto alle gag e al simpatico gioco di opposti tipici delle loro commedie campioni d’incassi per ribadire lo statuto di interpreti a tutto tondo già confermato al Teatro Greco di Siracusa con Le rane di Aristofane.
longtake.it
Ci voleva un regista colto come Roberto Andò per fare uno dei film più divertenti degli ultimi anni, e non solo. Ci voleva un uomo di teatro e di cinema, un palermitano sensibile da sempre ai giochi del caso e agli incroci beffardi tra realtà e finzione (ricordiamo almeno Viva la libertà e Una storia senza nome), per coniugare la genesi di “Sei personaggi in cerca d’autore” alle imprese di due becchini col pallino del palcoscenico. Ci volevano, infine tre attori meravigliosi come Ficarra e Picone, i due becchini filodrammatici, e Toni Servillo, un Pirandello di poche parole e molti sguardi, per dare a questa farsa labirintica la leggerezza di una commedia, la precisione di un vaudeville, la densità (mai ostentata) di un trattatello filosofico. Che fondendo fatti storici (la “prima” tumultuosa al Valle) ad altri del tutto immaginari, riesce a gettare una luce diversa su un monumento come i “Sei personaggi”. In una cascata di invenzioni che lavora su tutti i piani del racconto, dal semplice intreccio, con i suoi esilaranti equivoci, al lavoro sugli spazi (le scenografie sono di Giada Calabria); dai dialoghi, in cui il dialetto più sanguigno si mescola all’italiano “strettissimo”, a un sottotesto pulsante anche se affidato a pochi sapienti dettagli: la moglie folle di Pirandello, la balia morta con la bocca spalancata, la gelosia persecutoria nutrita da Ficarra nei confronti di sua sorella (un’insolita ed efficacissima Giulia Andò). Fino a quel gran finale in cui ogni cosa paradossalmente sembra tornare al suo posto, in una confusione forse definitiva tra realtà e finzione, vita e rappresentazione. Anche se conviene non insistere sui significati, che ci sono e, soprattutto, sono accessibili a chiunque. A brillare sullo schermo sono il ritmo, l’inventiva, il piacere, la generosità dimostrata da Andò (con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso alla sceneggiatura) e dagli attori, numerosissimi e straordinari fino al più piccolo ruolo. Come se questa Stranezza così inattesa aspettasse in certo modo di vedere la luce da sempre. A risarcire, sull’onda di altri film importanti ispirati al teatro (Qui rido io di Martone, ma anche il trascurato La stoffa dei sogni di Cabiddu), un cinema che troppo spesso, misteriosamente, sembra anzitutto ansioso di dimenticare di cosa può essere capace.
Fabio Ferzetti – espresso.repubblica.it