L’idea del film nasce dal voler ripercorrere le strade che Hermann Buhl, alpinista austriaco, circa settanta anni fa attraversava con la sua bicicletta per raggiungere la parete del monte Badile. Il seguire quello stesso percorso diventa per i due registi, alpinisti e al tempo stesso ciclisti, l’occasione, grazie ai ricordi della figlia, per delineare l’appassionato ritratto di un uomo innamorato della montagna.
È un Il 4 luglio 1952 Hermann Buhl, che sarà in seguito protagonista delle prime ascese al Broad Peak e al Nanga Parbat, compie un’impresa meno famosa ma altrettanto degna di nota. E’ un venerdì mattina quando parte da Innsbruck in bicicletta e vi farà ritorno la domenica per essere puntuale sul posto di lavoro il lunedì. Bel frattempo avrà percorso 300 chilometri tra andata e ritorno per raggiungere la base della parete nord-est del Pizzo Badile che salirà in solitaria. Questo documentario ne ricostruisce la storia allargando lo sguardo a cosa significhi oggi la passione incontaminata per la montagna.
Alberto Valtellina (La scuola non è secondaria) e Maurizio Panseri offrono l’occasione per ricordare e rivivere il vero spirito dell’alpinismo motivato solo dall’amore per imprese che mettano l’uomo a contatto diretto con la natura e con se stesso nel profondo.
Ci sono molti modi per ricordare un alpinista che è stato uno dei più importanti scalatori e che ha perso la vita, morendo sul monte Chogolisa a 33 anni. Se ne può ricostruire la biografia attraverso documenti e testimonianze oppure lo si può fare in modo diverso. Mostrando cioè come quella sua passione abbia lasciato il segno e come ancora oggi esistano scalatori e guide alpine che non hanno dimenticato le sue gesta e, come nella vicenda che fa da base, in un’epoca in cui c’è chi dice di essere stato in montagna ma non ha percorso neanche un metro senza l’auto, salire sulla bicicletta e ritentare l’impresa. Questa però è solo una parte, per quanto importante e ardimentosa, della narrazione perché non si trascura neppure il ricordo che Buhl ha lasciato in una figlia che di quel padre ha goduto ben poco la presenza. Una donna che ora legge brani del resoconto di quella scalata in solitario e che ha avuto per lunghi anni un sogno in cui lo vedeva tornare con la barba lunga e con le vesti logore ed era la sola a riconoscerlo. Oggi invece sono in tanti a tenerne vivo il ricordo senza retorica ma con intensità.
…In effetti questo, oltre ad essere un memoriale di un’impresa, vuol essere la testimonianza di come le vecchie e le nuove generazioni sentano il richiamo delle cime e vi rispondano con modalità diverse ma unificate da una identica tensione. Ci sono i giovani alpinisti ma c’è anche il free climber che ci ricorda che la paura è necessaria per effettuare salite a mani nude su pareti impervie anche se non le va lasciato spazio quando si è concentrati per conquistare un record.
Quello che colpisce in questo lavoro è la semplicità con cui vengono mostrate le situazioni. Se una guida alpina donna sta riflettendo sul senso dell’affrontare le cime con un interlocutore e una compaesana si ferma per non ostacolare la ripresa le si chiede di entrare nell’inquadratura e non si operano tagli. Si offre così a chi guarda il senso di una semplicità che non significa superficialità o dilettantismo ma, molto più significativamente, testimonianza della possibilità, in questo mondo che sembra aver fatto della virtualità il proprio credo, di un incontro tra esseri umani che i monti li vivono e non si limitano a mordi e fuggi o a settimane bianche comandate.
Giancarlo Zappoli – mymovies.it