Il tempo rimasto

Daniele Gaglianone

Quando il passato riemerge può rivelarsi indomabile e diventare un altro presente, il qui e ora di uno spazio nitido e indefinito allo stesso tempo, sospeso in uno stato d’animo che toglie il fiato. Il film realizza un viaggio dentro questa dimensione, raccontando cosa significa attraversare questa soglia e restarci in bilico fra lacrime inattese e risate improvvise. 

Italia 2021 (85′)

Una riflessione sulla vecchiaia e su cosa si può scoprire guardandosi in questo specchio, che nasce da un lungo percorso di ascolto e decine di lunghi incontri in diverse regioni italiane, alla ricerca di un mondo “fino a ieri” che a volte appare remotissimo e a volte stranamente presente. Il tempo rimasto è un flusso fragile e resistente lungo un sentiero che vuole disorientare anziché portare in un luogo preciso: i frammenti di vita lontana si inanellano e scivolano uno dentro l’altro legando fra loro persone lontane, ma procedendo per il sentiero si riconosce il filo leggero e solido che può guidare chi percorre questo labirinto.

press-book

Il tempo passato e quello che resta, è da questa voragine esistenziale che emerge il bellissimo documentario di Daniele Gaglianone (La mia classe, Ruggine, Nemmeno il destino), che ormai figura tra gli autori italiani più apprezzati e rincorso dai festival di settore, trovando il giusto e meritato riconoscimento anche nel pubblico non propriamente cinefilo.
Ancora una volta sembra di vivere con i protagonisti tra i banchi di una scuola, la scuola della vita e i corpi invecchiati e segnati dalle circostanze, non sono altro che involucri racchiudenti in fondo occhi di bambini, passioni mai assopite, anime pure e nude, lacrime mai definitivamente asciugate. A volte gli stessi protagonisti sembrano trasformarsi in scenografi di sé stessi, ricostruendo esperienze trascorse, facendole rivivere come se tutti fossimo catapultati in un eterno presente. Ascolto, incontro, simbiosi, attraversando nostrani luoghi lontani e mai così prossimi, intersecando dialetti diversi, spigolosi, ostici, ma terribilmente chiari, come se la parola in se, non solo arrivi a riconoscere la propria funzione, addirittura sembra tendi a coronare le immagini di un’aura magica, in alcuni frangenti presepiale. Presepiale nel senso di luogo di sospensione spazio/temporale, proprio quello che il regista persegue e raggiunge, facendoci liberare lo sguardo in uno spazio appunto nitido, ma all’unisono indefinito. Sulla soglia del rimorso, del rancore, degli anni duri e difficilmente raccontabili, lacrime e sangue si mescolano con il coraggio e l’ironia, mai dome.
La riflessione apparentemente sulla vecchiaia è in realtà un tuffo senza freni nello specchio della propria immagine solo apparentemente attraversata dai solchi degli anni. Ma qui bisogna andare oltre, è vero rappresentare la vita al cinema non può che fare i conti con la finzione, a prescindere, nonostante ci si sforzi di “nascondere” il peso della macchina. Gaglianone non ha bisogno di nascondere, perché i suoi corpi sono sempre vivi, terribilmente veri da soverchiare con naturalezza il virtuale e il virtuosismo. Questa nuova classe della terza età smargina stavolta i confini più prettamente cinematografici, non tanto quelli tra realtà e finzione, abbatte per certi versi i muri, senza farsi invadere da inaspettati eventi esterni, semplicemente, ancor più, se fosse possibile, lasciandosi travolgere dalle storie, dai volti, che non certo risolvono l’atavico e devastante enigma del ruolo di chi dirige, di quanto e quando può entrare in campo, ma certamente induce (deduce un pò meno..) noi tutti a scivolare nel flusso ineguagliabile del dentro/fuori.

Leonardo Lardieri – sentieriselvaggi.it

Che cosa sappiamo delle persone anziane, del loro universo emotivo, delle loro ansie? Attorno a questa domanda si muove Il tempo rimasto, nuovo documentario di Daniele Gaglianone, proiettato al Tff nella sezione «L’incanto del reale». Il film è ancora una volta, come Dove bisogna stare, un viaggio in Italia da Sud a Nord sul filo degli incontri. Le persone intervistate sono diverse per grado d’istruzione, censo, mestiere svolto ma sono accomunate dal fatto di aver attraversato un lungo tratto di Novecento tra lavoro, affetti, guerra, deportazione, migrazioni, impegno politico, aspirazioni realizzate o frustrate. Persone comuni ma anche alcune figure più note come Paola Mazzetti, gemella della regista Lorenza, o Sante Bajardi, una vita nel Pci e nelle fabbriche.
Inizialmente, il film mostra singole persone che rievocano il passato nel proprio ambiente domestico o nei luoghi che abitarono nell’infanzia e che oggi sono in rovina. Cimiteri abbandonati, abitazioni dirupate: gli spazi sono densi di fantasmi a noi invisibili ma ben presenti attraverso le emozioni di chi testimonia. C’è però anche chi ormai la memoria l’ha persa e così anche la parola e torna alla mente Vivere (2016) di Judith Abitbol, struggente omaggio a chi pian piano se ne va passando per quella «notte» della mente che è l’Alzheimer, così ribattezzato dalla madre malata di Annie Ernaux nel libro Non sono più uscita dalla mia notte.
Ogni tanto le interviste sono a coppie, altre volte le persone si rivelano accompagnate da un famigliare che aiuta o incoraggia e che non intendeva rivelarsi ma che irrompe in campo per una parola di incoraggiamento, per una carezza di sostegno quando l’emozione è troppa. Ci sono racconti che rimangono incompleti, sospesi per il dolore che suscita rievocarli.
Gaglianone non ha mai lasciato che il «dovere di verità» o di completezza narrativa prevalesse sul dolore di chi racconta o di chi filma: ne era già un esempio la sospensione, l’avvento del silenzio o lo sfumare dell’audio che sopravvenivano in Rada Nece Biti (2008) durante l’intervista all’antropologa forense al cospetto di poveri resti umani. In diversi momenti de Il tempo rimasto, la messa in scena rivela il suo farsi e il documentario i suoi limiti e i suoi bordi, come quando Maria, l’insegnante di pianoforte, implacabile nonostante l’età avanzata, non risparmia una rampogna all’allievo impreparato al che il regista interviene fuori campo: «Maria, questa non è una lezione vera è solo un modo per mostrare che alla tua età insegni ancora, non ti arrabbiare».
C’è chi ricorda il primo taglio di capelli e chi le manifestazioni del Primo Maggio, chi canta Rose rosse e chi Bandiera Rossa, chi mostra le foto di famiglia e chi i campi dove pascolava le greggi. Ne risulta il ritratto del nostro Paese tra misoginia, sessuofobia, classismo, mancato accesso all’istruzione per le classi subalterne, ma anche conquiste personali e collettive che hanno permesso una vita migliore e maggiori diritti a chi è venuto dopo.

Silvia Nuraga – Alias/Il Manifesto

Lascia un commento