Il film si ispira alla storia di Aldo Braibanti, il drammaturgo e poeta, che nel 1968 viene processato con l’accusa di plagio, cioè di aver sottomesso alla sua volontà, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico da poco maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia, fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché “guarisse” da quell’influsso “diabolico”. Braibanti venne alla fine condannato a nove anni di reclusione. In realtà l’uomo non aveva commesso plagio, ma l’imputazione era servita per mettere sotto accusa l’omosessualità e i “diversi” di ogni genere.
Fine Anni 50. Lo scrittore e intellettuale Aldo Braibanti (Lo Cascio), è un ex partigiano in rotta col Partito Comunista. Gestisce una casa-laboratorio per artisti frequentata da giovani studenti universitari. Qui incontra Ettore (Leonardo Maltese), un ragazzo bolognese di cui si innamora, ricambiato. La famiglia di Ettore accuserà l’intellettuale di «plagio psicologico». Portando il ragazzo in una clinica psichiatrica (“curato” con sessioni di elettroshock) e Braibanti in tribunale. Il capo di imputazione di «plagio» (introdotto dal Codice Rocco durante il fascismo e abolito dalla Corte Costituzionale solo nel 1981) era un pretesto per la vera accusa. Quella di omosessualità. Tra le voci dissonanti e libere, anche in aperto contrasto con il Partito, quella di Ennio (Elio Germano). Giovane giornalista libertario de L’Unità, inviso al direttore, decide di seguire il processo. Sentito, realistico, a tratti poetico, il film ripercorre la vera storia dell’intellettuale Aldo Braibanti condannato per la sua omosessualità nell’Italia conformista degli anni 60. Ripudiato dal suo stesso partito (il PCI pieno di contraddizioni e chiusure di allora) e da molti “compagni”. Che dicevano «occupiamoci piuttosto del Vietnam!». Con Il signore delle formiche Amelio sceglie un racconto a più voci e più sguardi, perfino quello degli “accusatori”. Come il coro di una tragedia greca – spesso evocata dallo studioso – nell’intreccio e nei salti temporali, ogni dettaglio, fatto o figura riecheggia in un dialogo, un riferimento successivo. Vediamo e ascoltiamo tutti i personaggi al centro della scena. Dal protagonista Aldo Braibanti-Luigi LoCascio al giovane amato Ettore-Leonardo Maltese, dal giornalista Ennio-Elio Germano e sua cugina, la contestatrice Graziella Sara Serraiocco), al fratello e la madre (Anna Caterina Antonacci, soprano al primo film) di Ettore, che porteranno il ragazzo in una clinica psichiatrica, avviando il processo contro l’intellettuale. Fino alla madre dello studioso, figura potente anche se ai margini della scena. Amelio realizza un’opera che oscilla tra la ricostruzione dei tragici fatti e la messa a fuoco di un sentire radicato e difficile da estirpare (il provincialismo di un Paese, l’urgenza di libertà di scelta e di identità)…
Luca Barnabé – style.corriere.it
Due anni dopo Hammamet, Amelio torna a confrontarsi con la storia d’Italia, riportando alla luce un terribile fatto di cronaca che mostrava un paese all’epoca cresciuto soltanto da un punto di vista economico, ma ancora arretrato dal punto di vista morale. È una storia di discriminazione quella che racconta il regista, che punta in questo caso il dito non solo contro i tribunali e i giornali, ma anche contro l’istituzione famigliare, riuscendo su questi temi a proporre dei parallelismi con i giorni nostri. Potente sul versante politico, Il signore delle formiche è allo stesso tempo un ritratto intimo di un legame sentimentale fortissimo, un melodramma commovente capace di toccare corde emotive profondissime, soprattutto con l’approssimarsi della conclusione. La forza di questa pellicola – tra le migliori della carriera di Amelio – sta proprio in questo grande equilibrio tra riflessione pubblica e privata, individuale e collettiva, in cui la ricerca della verità è in mano soltanto a un giornalista che non vuole adeguarsi al pensiero comune. Attraverso un climax crescente e dialoghi scelti con cura, il film appassiona e scuote nel profondo, offrendo una serie di spunti di riflessione che non se ne vanno coi titoli di coda. Ottima prova di Luigi Lo Cascio, altrettanto efficace Elio Germano, ma una menzione speciale va alla straordinaria performance dell’esordiente Leonardo Maltese, soprattutto quando la cinepresa lo inquadra durante la sua testimonianza al processo.
longtake.it
“La tenerezza, tenerezza è detta, se tenerezza cose nuove dètta”. Sono versi di Sandro Penna, che Gianni Amelio citava per la seconda volta in un suo titolo. Il film era La tenerezza, del 2017. Sono trascorsi cinque anni, ma lo spirito e quel “cose nuove dètta” restano immutati. Oggi siamo arrivati a Il signore delle formiche, passando dall’anima lacerata del nostro Paese, da Hammamet. Ma la prima domanda, fin da Colpire al cuore, è la stessa: che cosa faresti per amore? Amelio aveva risposto con il carabiniere di Il ladro di bambini, che si scopriva quasi padre nell’attraversare l’Italia con quelle due creature, o con Così ridevano, quando un ragazzo si sacrificava per non rivelare i delitti del fratello. Umanesimo, famiglia, accettazione, temi ricorrenti, necessari, che si riversano anche in Il signore delle formiche.
“Io non sono come gli altri, ma sono anche come gli altri”, dice il professor Aldo Braibanti al ragazzo che ama. E forse è questa affermazione che riassume il senso di un’opera bellissima, una delle vette del cinema del regista. L’Italia degli anni Sessanta, dei benpensanti, si specchia in quella di oggi. All’epoca si sostituiva la parola omosessualità con “plagio”, nel 2022 ci si mostra progressisti, ma poi si aggrediscono i ragazzi per le strade. Che cosa è cambiato? La superficie. Ma tutti hanno il diritto di amare chi vogliono, sostiene un Elio Germano infervorato, che presta il volto al cronista di un giornale di Partito che deve seguire il “caso Braibanti”.
Qualcuno magari se lo ricorda, Braibanti. Un uomo di cultura, commediografo, mirmecologo, per alcuni un filosofo, accusato di aver “corrotto”, abusato psicologicamente di un suo studente ventitreenne. Si arriva in tribunale, la passione viene spenta con l’elettroshock, al banco degli imputati c’è la libertà, la stessa che veniva attaccata in La tenerezza. C’era sempre Germano, che in una scena fortissima assaliva un venditore ambulante. Alla violenza seguiva il pentimento, uno sguardo fisso, senza parole, che come scriveva Penna: “cose nuove dètta”. E allora anche un genitore poteva riemergere dal fango dei suoi anni, per diventare più forte dei suoi difetti e ricominciare a sentirsi libero, libero di essere sé stesso, imperfetto e ancora una volta umano. Proprio come Braibanti, come il giovane Ettore, come un’Italia che deve riappacificarsi con chi la abita.
“Le proteste si fanno per il Vietnam, non per un invertito”, urla un giovane avvocato calabrese, un futuro principe del foro. Ed è proprio sul futuro che ci fa riflettere Amelio. Ci racconta del passato, lo porta nel presente, ma la spinta è verso il domani.
Un cinema classico, potente, e allo stesso tempo modernissimo. Un film che parte da Quando volano le cicogne di Kalatozov e si chiude un’aria dell’Aida, un film che affronta più linguaggi, che unisce la macchina da presa al palcoscenico. E che trionfa nel suo intimismo, nei sentimenti trattenuti, nella tragedia dell’intolleranza, nel dolore di due madri dilaniate che non possono guardarsi negli occhi.
Luca Barnabé – style.corriere.it