Adrien è bloccato in una lunghissima cena di famiglia in cui il futuro cognato gli chiede di preparare un discorso per il suo matrimonio. Il protagonista però è in preda ad una crisi di mezza età e, come se non bastasse, la sua fidanzata forse lo sta lasciando. Potrebbe andar peggio di così?
Le Discours
Francia 2020 (87′)
Una lunga e snervante cena in famiglia, con discussioni “entusiasmanti” che vertono su un portatovaglioli a forma di gallo, sui vantaggi del riscaldamento a pavimento e sui più classici luoghi comuni. Chi non ha mai sentito il bisogno in una situazione del genere di perdersi nei suoi pensieri? Adrien si isola e aspetta. Aspetta che Sonia risponda al suo sms e metta fine alla “pausa” che gli ha concesso da un mese. Ma proprio in questo momento Ludo, il suo futuro cognato, gli chiede di fare un “semplice discorsetto” per il suo matrimonio! Adrien va nel panico. E se invece proprio questo discorso fosse alla fine la cosa migliore che poteva capitargli e gli permettesse di rimettersi in gioco?
Il discorso perfetto, diretto da Laurent Tirard e tratto dal romanzo di FabCaro, non è solo un’altra grande commedia francese. È molto di più. Partiamo da un verbo, “procrastinare”. Che, secondo la Treccani, significa “Differire, rinviare da un giorno a un altro, dall’oggi al domani, allo scopo di guadagnare tempo o addirittura con l’intenzione di non fare quello che si dovrebbe”. Ecco, in ottantotto, eccezionali, minuti, Adrien, interpretato da uno strepitoso Benjamin Lavernhe, fa questo e tanto altro durante una tediosa cena di famiglia, escogitando mentalmente assurde scappatoie per non fare il fatidico discorso nel giorno del matrimonio della sorella Sophie (Julia Piaton).
Come se non bastasse, freneticamente e compulsivamente, controlla l’iPhone sperando che la (ex?) ragazza Sonia (Sara Graudeau) risponda ad un messaggio inviato ore prima, dopo trentotto giorni di “pausa”. Allora, il film di Tirard (nella selezione ufficiale di Cannes), è il manifesto per tutti coloro che provano a controllare l’incontrollabile. Che sia una persona, una cena, un discorso in pubblico che proprio non si vuol tenere. In l discorso perfetto si sorride e si ride (in alcuni passaggi davvero di gusto) con tempi comici perfetti e intelligenti (…) seguendo il goffo e irresistibile Adrien di Benjamin Lavernhe, che è la rivincita per tutti gli indecisi, i titubanti, gli impauriti. Una bandiera per coloro che farebbero qualsiasi cosa per non affrontare discorsi, verità, confronti. Comprendiamo Adrien, con le sue folli fantasie (bravo Tirard a rendere il quadro narrativo credibile) e con la sua determinazione; scendiamo in empatia con lui, con i suoi piani di fuga irrealizzabili. E… forse la verità sta nel mezzo e l’estenuante ansia di un sms che non arriva andrebbe presa solo per quella che è. Un’attesa, da riempire invece con l’unica certezza della vita: godersi l’attimo!
Damiano Panattoni – hotcorn.com
Laurent Tirard ce la mette proprio tutta per tenere vivo il cinema tra le pieghe del teatro filmato, ricorrendo allo sfondamento di pareti immaginarie, ai salti avanti e indietro nel tempo, ai freeze frame e alle mini sequenze di montaggio, ma è uno sforzo che si avverte (…) Ciò non significa che Benjamin Lavernhe non si guadagni il suo primo ruolo da protagonista, o che il suo monologo, lungo quanto il film, non sia acuto o divertente (chiunque non sia allergico al cinismo in piccola dose troverà carburante per qualche bella risata), e non vuol dire nemmeno che Il discorso perfetto non abbia i suoi padrini cinematografici, da Amélie, per lo stile scoppiettante delle digressioni, a (500) giorni insieme, per la cronaca delle pene d’amore. Quello che non si può negare, però, è che funzioni anche come un altro tipo di “discorso”: un elogio funebre per la scomparsa del cinema inteso come spazio dell’immagine e dell’azione. Introdotta da una presentazione del protagonista su un palcoscenico, microfono davanti e sipario alle spalle, la commedia rimane di fatto in quella posizione per tutto il resto della sua durata, rimbalzando tra soli interni, affidandosi tutto il tempo alla voice over come in un podcast, e operando un montaggio di riprese e rilanci a partire dalle frasi del monologo, che sostituiscono di fatto le scene del film. Niente di grave, anche perché il registro, frammentato nel ritmo e espressionista nella mimica, strizza l’occhio al genere che ha fatto la fortuna di Caro, e cioè il fumetto…
Marianna Cappi – mymovies.it