I figli degli altri

Rebecca Zlotowski

Rachel è una donna che ama la sua vita, i suoi studenti, i suoi amici, le sue lezioni di chitarra. Quando si innamora di Alì, Rachel stringe un legame profondo con sua figlia di quattro anni, Leila. Si prende cura di lei, come fosse sua madre, anche se non lo è. Il desiderio di una famiglia tutta sua si fa sempre più grande, ma la realtà è fatta di rapporti familiari complessi e il tempo non perdona…

Les enfants des autres
Francia 2022 (104′)

Raccontando l’intera storia di un nuovo amore vissuto da Rachel (una fantastica Virginie Efira), insegnante di liceo single e quasi quarantenne, il film ne segue tutte le fasi e le complicazioni (che non sempre sembrano particolarmente serie, ma che tuttavia divorano in profondità la coppia) dell’assumere il ruolo di matrigna di un bambino di quattro anni. Ma prima di tutto, c’è la sua storia d’amore con Ali (Roschdy Zem), le loro mani che si sfiorano come se fossero adolescenti, il piacere fisico, le cene con gli amici… Poi arriva il momento di conoscere e conquistare la piccola Leila (Callie Ferreira-Goncalves), cui seguono i corsi di judo (e le merende da non dimenticare), le vacanze insieme in Camargue, le piccole paure, le gioie condivise e anche le ferite (“perché Rachel è sempre qui? – È la mia fidanzata – La mamma è la tua fidanzata. Voglio che se ne vada”). Perché c’è un’altra donna in scena, Alice (Chiara Mastroianni) che è la madre di Leïla, cosa che Rachel non potrà mai essere (“posso prendermi cura di lei. Ma sarete sempre voi suo padre e sua madre”). Il tutto mentre il suo ginecologo (Frederik Wiseman) le fa pressione perché il tempo sta per scadere: “Se vuoi un bambino, ora è il momento. Devi pensare che i mesi sono come anni”. E il tempo è anche la famiglia di Rachel: suo padre, sua sorella minore che rimane incinta, la madre morta tre decenni prima, le preghiere in famiglia sotto lo scialle nella sinagoga. Tutto un insieme di risonanze che interagiscono con emozioni profonde (e che spesso cerchiamo di contenere) che toccano l’essenziale. Attraverso il suo ritratto di Rachel brillantemente diretto (con un’elegante discrezione impreziosita da effetti iride e dissolvenze) e ricco di una moltitudine di echi sapientemente orchestrati sotto la superficie di una storia apparentemente “banale” sulla vita, Rebecca Zlotowski firma un’opera di grande maturità che chiaramente rende anche un affettuoso omaggio non solo a tutte le donne senza figli, ma anche alla solidarietà femminile in generale (“smettiamola di chiedere scusa al posto degli uomini”).

Fabien Lemercier – cineuropa.org

Parte da un tema forte e non semplice da trattare Rebecca Zlotowski, regista francese arrivata al suo quinto lungometraggio, che prende ispirazione direttamente da un’esperienza che ha vissuto per questo suo lavoro. Al centro c’è una quarantenne senza figli che si innamora di un padre single e, mentre cerca di trovare spazio nella famiglia dell’uomo, incomincia a sentire il desiderio di avere una famiglia sua: la base narrativa è credibile, sentita e importante, ma l’autrice dimostra una carenza di idee impressionante su come riuscire a raccontarla al meglio. È quasi sempre presente un tappeto musicale in questo film in cui l’autrice sembra non farcela con le sole parole per provare a emozionare come vorrebbe: la regia è essenziale solo in apparenza, ma invece costantemente attraversata da scelte irritanti, a partire dai costanti mascherini circolari che vogliono fare tanto nouvelle vague (così come la presenza dei luoghi simbolo di Parigi fin dai primi minuti) ma che finiscono soltanto per dimostrare una pochezza stilistica non accettabile. Se il “cosa” di questo film è sempre interessante, è il “come” a risultare quasi sempre sbagliato, anche a causa di dialoghi eccessivamente studiati a tavolino. Si salva l’ottima prova di Virginie Efira…

longtake.it

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