Giuliana (Monica Vitti), moglie di un industriale, è vittima di nevrosi e inquietudini esistenziali. Neanche la relazione con Corrado (Richard Harris), collega del marito Ugo (Carlo Chionetti), che in un primo momento sembra comprendere i suoi sentimenti, riesce a colmare il suo vuoto interiore.
Francia/Italia 1964 (120′)
Leone d’oro e Premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia.
Sono abituata a vivere con poco, non guido la macchina, non amo i gioielli, porto un paio di scarpe finché non cade a pezzi, mi vesto così come viene. Sono contenta così. Dicono che il mondo è di chi si alza presto. Non è vero. Il mondo è di chi è felice di alzarsi. (Monica Vitti)
Primo film a colori per Antonioni e ideale prolungamento della “trilogia della incomunicabilità” composta da L’avventura (1960), La notte (1961) e L’eclisse (1962). Il nucleo tematico è ancora una volta quello della crisi delle relazioni affettive nella società contemporanea, nuovamente inscritto dentro la psicologia di un personaggio femminile interpretato da Monica Vitti. Il regista ferrarese si spinge ancora oltre nella rarefazione della sua poetica, orientata qui a rendere centrale il rapporto dialettico tra persone e paesaggio: in una plumbea Ravenna post-industriale che ricorda gli scenari de Il grido (1957), la disumanizzazione dei luoghi è connessa in maniera biunivoca all’aridità interiore dei personaggi. Il ritmo lentissimo e l’ostentata contemplazione dei “luoghi dell’anima”, secondo un’esemplare visione autoriale, rendono la pellicola una delle opere più ostiche di tutta la carriera di Antonioni così come il tentativo di rendere nei dialoghi (di Antonioni e Tonino Guerra) l’emotività disturbata della protagonista rischia di scivolare con qualche battuta nell’astruso, eccedendo in qualche stucchevole psicologismo. Ma la ricerca formale raggiunge vette che non hanno paragoni nel panorama cinematografico italiano, e le sperimentazioni cromatiche operate dal regista e dal direttore della fotografia Carlo Di Palma sono entrate (a ragione) nella storia del cinema.
longtake.it
Un incidente d’auto provoca in Giuliana uno choc che, aggravato dall’ambiente particolare in cui la professione del marito (ingegnere elettronico) la costringe a vivere, si tramuta in uno stato di continua nevrosi depressiva. Corrado, un amico del marito, si sente attratto verso la donna e tenta di aiutarla ad uscire dalla sua solitudine piena di incubi, intrecciando con lei una fuggevole ed amara relazione. Tale esperienza non fa che aggravare lo stato depressivo della donna che si vede inconsapevolmente ingannata anche dal suo figlioletto, il quale finge d’essere colpito da una grave malattia. Fallito il tentativo di porre fine violentemente alla propria esistenza senza scopo, Giuliana continuerà la sua vita in precario equilibrio tra rassegnazione e pazzia. Nono film di Antonioni, e il suo primo a colori, in funzione soggettiva (fotografia di Carlo Di Palma) come espressione di una realtà dissociata e con ambizione di trasformarlo esso stesso in racconto come “mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose”. Come nei 3 precedenti film con Monica Vitti, la donna è l’antenna più sensibile di una nevrosi comune nel contesto della società dei consumi e della natura inquinata.
Il Morandini – Dizionario dei film
La vicenda di Deserto rosso, l’ultimo film di Michelangelo Antonioni ha il merito d’una semplicità lineare. Una donna, moglie d’un industriale di Ravenna, in seguito ad un incidente automobilistico, s’è ammalata di nervi. Dire che è nevrotica è dir poco; siamo quasi al limite della follia. La signora soffre soprattutto d’un sentimento continuo di paura. Tutto le incute spavento: la fabbrica del marito, la salute del figlio, la propria solitudine, i rapporti con la gente, la natura e le cose. Capita a Ravenna un giovane industriale alla ricerca di tecnici per impiantare una fabbrica in Argentina. Costui, che pare soffrire anche lui della stessa angoscia, fa un po’ di corte alla donna la quale, in un momento di crisi (ha temuto che il figlio si fosse ammalato di paralisi infantile) gli cede. Ecco tutto.
A ben guardare è l’adulterio tradizionale (diciamo così) di tipo borghese. L’adulterio cioè consumato per inquietudine bovaristica. Questo non è nuovo in Antonioni il quale viene dalla borghesia e ne interpreta la crisi. Nuovo semmai è il ricorso esplicito alla nevrosi cioè ad una condizione morbosa che interessa più la medicina che la cultura, con la correzione però di proiettarne i sintomi su uno sfondo, appunto, culturale. Così Deserto rosso è la descrizione d’una nevrosi che, come avviene sovente oggi, s’innesta direttamente nella situazione storica dell’alienazione di origine capitalistica e industriale. Semplice malattia ai tempi di Charcot, la nevrosi, nel film di Antonioni, diventa facilmente condizione umana. Gli è che mentre la nevrosi è rimasta quella che era, la storia o quello che di solito si chiama storia, s’è mossa e l’ha investita d’un significato che un tempo non aveva.
Il paragone con certi film di Bergman potrebbe tuttavia illuminarci sopra il carattere specifico dell’operazione di Antonioni. Si vedrebbe allora che Antonioni è più moderno di Bergman nel senso di rappresentare e far parte d’una società nella quale il processo dissolutivo è più avanzato che in quello del regista svedese. Anche Bergman descrive una nevrosi: ma pur non cadendo in una caratterizzazione clinica di tipo positivistico e conservando le implicazioni culturali, mette una distanza oggettiva di specie naturalistica tra lui e il personaggio. In Deserto rosso, invece, Antonioni s’identifica con la protagonista. In realtà non è il personaggio di Antonioni ad avere paura bensì, sia pure con le attenuazioni e i filtri propri dell’arte, Antonioni stesso. Diremo con questo che Antonioni è nevrotico? Non lo diremo certamente, diremo piuttosto che non c’è in lui né la volontà né l’aspirazione a mettersi fuori della nevrosi, cioè a dare un nome alla crisi storica che purtuttavia egli indica chiaramente come la vera causa della malattia. Con ostinazione Antonioni si tiene dentro i limiti del suo personaggio: vuol farci credere che non ne sa un punto più della sua adultera borghese. In questo modo riesce è vero a sfuggire alla tentazione ideologica: ma rischia però di cadere nell’astrazione d’un continuo stupore di specie onirica.
Nel film di Antonioni ci sono due realtà, quella degli uomini e quella delle cose. Nelle cose è trasferita l’angoscia degli uomini i quali, forse per questo, risultano, rispetto alle cose, svuotati, casuali, descritti in aneddoti di scarsa incisività.
Nessun volto umano in Deserto rosso è così mistico e reale come i pezzi di muro, i tubi, le cartacce e gli altri innumerevoli oggetti sui quali l’obbiettivo di Antonioni indugia con una attenzione meditabonda, luicida, delirante. Gli è che Antonioni vede il mondo attraverso gli occhi della protagonista; e questa mentre ha rapporti nutriti con le cose, non ne ha nessuno con gli uomini. Antonioni non vuole sporcarsi le mani con la psicologia, questa fangosa facoltà soltanto umana; e così si dedica con passione alle cose.
Senza dubbio Deserto rosso è il film italiano nel quale il colore è stato adoperato sinora con maggiore eleganza, capacità plastica, maestria: senza dubbio Antonioni non aveva mai fatto dire alle cose, ci si consenta il bisticcio, tante cose. Ma come nelle rappresentazioni della pittura informale e della decorazione musulmana, si direbbe talvolta che in Deserto rosso la figura umana sia di troppo. Tant’ è che le parti più belle sono quelle, come per esempio la sequenza della favola, in cui l’azione, già tenue, s’interrompe del tutto. Monica Vitti è, con bravura e intensità, la protagonista e bisogna riconoscere che la sua nevrosi è credibile e al tempo stesso non compromette la sincerità e violenza del breve rapporto d’amore. Accanto a lei Richard Harris, l’amante, una parte difficile, riesce ad essere molto efficace.
Alberto Moravia – L’Espresso
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