Anthony rifiuta categoricamente di lasciare il suo appartamento, nonostante il peso dell’età inizi a farsi sentire. Mentre cerca di dare un senso alla situazione che si trova a vivere, inizia a dubitare dei suoi cari, della sua mente e persino del tessuto della sua realtà.
GB/Francia 2020 (97′)
2 OSCAR: miglior e sceneggiatura non originale
“E io, chi sono realmente io?”. Molto spesso il cinema, anche di recente, ha raccontato storie incentrate su demenza senile e Alzheimer (…) Un orologio perso di continuo, una casa che ogni volta appare differente, persone che assumono altre sembianze, una finestra dalla quale affacciarsi con la speranza che invece il mondo intorno a noi sia sempre lo stesso.
Esordendo dietro la macchina da presa, il drammaturgo francese Florian Zeller porta sullo schermo la sua omonima pièce teatrale del 2012, di fatto (ri)costruendo sulla maestosa interpretazione dell’ultra 80enne Anthony Hopkins – secondo Oscar dopo quello ottenuto per Il silenzio degli innocenti – uno script (firmato insieme a Christopher Hampton, anche questo premiato dall’Academy) capace di sfiorare i lidi dell’horror da camera.
Il primo terzo del film è da questo punto di vista sorprendente e disturbante: Anne (Olivia Colman, al solito magnifica) si reca dall’anziano genitore, Anthony, dopo che quest’ultimo ha messo in fuga l’ennesima badante che provava ad occuparsi di lui. Una situazione che non può più ripetersi, men che meno ora che la figlia ha deciso di trasferirsi da Londra a Parigi con un uomo conosciuto da qualche giorno e quindi non potrà più andare a trovarlo quotidianamente.
Basta semplicemente questo prologo ad instradare The Father, film che come recita il sottotitolo italiano, da questo momento in poi diventa una sorta di allucinazione percettiva in cui, davvero, nulla è più come sembra. È questo lo scarto più significativo operato da Zeller, che mette come ovvio al centro il rapporto padre-figlia ma si allontana dai crismi del kammerspiel canonico, lineare, per chiederci invece l’empatia totale, quasi fisica, contemporanea al progressivo sfaldamento dell’essenza individuale del protagonista.
In un certo senso, The Father diventa allora caleidoscopio emotivo in cui i ricordi e il vuoto finiscono per sovrapporsi, avvicinando e allontanando i due protagonisti senza soluzione di continuità, trasformando via via la realtà circostante e, con essa, le persone (?) che la abitano. Lo smarrimento di Anthony è giocoforza anche il nostro, ma l’abilità di Zeller – e dei magnifici attori che dirige – è quella di non cedere mai alle lusinghe del giochino a effetto o della furbizia autocompiaciuta, men che meno si ricerca la facile via del pietoso e/o del ricattatorio: il film – che le musiche di Ludovico Einaudi contrappuntano in maniera decisiva – cerca piuttosto l’insolita via di una “ricostruzione/decostruzione” dei fatti, che è poi quella intrinseca del cinema stesso e, appunto, della memoria.
Di chi è la casa in cui si svolge gran parte dell’azione? Di Anthony? O l’uomo è ospite in casa della figlia e del marito? E chi sono queste persone che ora dicono di essere Anne e Paul (Olivia Williams, Mark Gatis, Rufus Sewell)? E la nuova ragazza che si dovrà prendere cura di lui, Laura (Imogene Poots), perché assomiglia così tanto all’altra figlia di Anthony, la più piccola, “la pittrice”, che “sono mesi che non è più venuta a trovarmi”? Situazioni e dialoghi si accavallano, la dimensione temporale si sfalda e, di pari passo, la realtà si sgretola davanti agli occhi di un uomo che non può più controllare nulla. Ma qual è la versione autentica del mondo intorno a noi?
Zeller si interroga su questo, lasciando in superficie l’esplosiva performance di Hopkins (incredibile la maestria con cui riesce a saltare da un mood all’altro, ad essere contemporaneamente leggiadro, spento, euforico, severo, indifeso) e mantenendo sottotraccia una riflessione più ampia, che si eleva dal “semplice” resoconto di un uomo afflitto da demenza e da una figlia che pensa al modo migliore di aiutarlo. Quello che ci definisce, la narrazione di noi stessi, gli ancoraggi degli affetti e delle cose “di valore” (l’orologio…), la certezza di abitare un luogo (la casa) che, come noi, custodisce in silenzio la nostra storia, il nostro percorso. La frammentarietà dei ricordi finisce per definirci, per ricostruire un’immagine di noi che il tempo altrimenti finirebbe per inghiottire: ecco, The Father ragiona sullo spaventoso momento in cui – senza che nessuno potrà mai impedirlo – tutto questo incomincia a disperdersi come granelli di sabbia che si allontanano trascinati via dal vento. Le ante di uno sgabuzzino si aprono in realtà su un corridoio di una casa di cura, la finestra che prima affacciava su una strada ora svela il fogliame rigoglioso di un parco, il prima – alcune parti di esso – esiste ancora, l’adesso e il dopo sono nulla più che un miscuglio di immagini, parole, momenti che continuano a sovrapporsi, mescolarsi in un bagaglio ormai chiuso definitivamente.
Le regole abituali, la routine, tutto diventa un labirinto di domande senza risposta, che non combacia più con la percezione che abbiamo di noi stessi e di chi è intorno a noi: “Che cosa sta succedendo attorno a me?”, è questa la domanda che si pone Anthony. Ed è questa la straniante dimensione in cui Zeller ci chiede di entrare, tenendo a mente quali sono i film che lui stesso cita per “una migliore descrizione dell’universo” che voleva creare: “Amour di Haneke, per la semplicità e la violenza dell’emozione suscitata. Rosemary’s Baby di Polanski per il coinvolgente clima di stranezza che impone in uno spazio unico. E Mulholland Drive di David Lynch, per l’inventività narrativa che fa coesistere numerose realtà contraddittorie e pone attivamente gli spettatori in una posizione in cui possono scoprire le proprie ragioni all’interno del film”. Impossibile aggiungere qualsiasi altra cosa.
Valerio Sammarco – cinematografo.it