Spencer

Pablo Larraín

USA 2021 (111′)

 VENEZIA – Una giovane donna si perde mentre guida lungo una solitaria strada di campagna. Chiede informazioni agli avventori di un locale, che, per tutta risposta, al suo ingresso la fissano come inebetiti e sorpresi dalla sua presenza. Con l’aiuto di alcuni automobilisti appena più loquaci, che oltre alle indicazioni le forniscono un breve ma perentorio avvertimento, riesce poi a raggiungere la meta: una enorme villa spersa nel contado inglese, i cui abitanti paiono sin dal primo ingresso succubi di ritualità misteriose e un po’ sconcertanti. Mentre strani libri si manifestano sul suo letto e inquietanti sogni le agitano il riposo, la protagonista inizia a crollare sotto il peso dell’angosciante controllo che gli altri inquilini esercitano su di lei.

    Sebbene da questo breve sunto paia di trovarsi di fronte a un tipico film dell’orrore, a metà tra Tobe Hooper – cui ci rimanda la protagonista che si perde in una campagna popolata da strani e reticenti individui – e Roman Polanski – per l’abitazione che soffoca lentamente la psiche della fanciulla, inducendole manie persecutorie –, l’opera è in realtà il nono film dell’acclamato regista cileno Pablo Larraín, che ci racconta, favoleggiando, le gesta di Lady Diana Spencer alla corte d’Inghilterra.

Già in passato abile a raccontare storie individuali di grandi protagonisti del secolo XX illuminandone il valore di simbolo col ricorso a strutture narrative tipicamente “di genere” – e si veda come esse, dal noir al western, venivano inscenate e poi genialmente sovvertite in quel capo d’opera che è Neruda (2016) –, Larraín ha qui l’intuizione di narrare le vicissitudini della Principessa del Galles impiegando la lente deformante del cinema horror. Si intenda: senza lasciarlo trasparire. Contrariamente a quegli autori che si fanno obbligo di esibire – e marcatamente ribadire – le suggestioni teoriche che guidano i loro lavori, il cinema di Larraín aderisce con spontaneità alle esigenze della drammaturgia e non si cura di lasciare sottotraccia, come occultato, ma senza sforzo, l’elemento teorico, quale pietra di volta nel sistema di un arco. Ecco che Spencer si propone, allora, come un horror senza horror, un film raffinatissimo nell’inscenare la storia di un tormento personale chiudendola nelle maglie di uno stile che dialoga strettamente con la storia del cinema.


La plongée che, seguendo la processione delle auto, ci introduce, in incipit nel castello incantato dei reali inglesi, in quell’Overlook Hotel dove i corridoi sono rossi, vuoti e sterminati, le porte una moltitudine pressoché infinita, e la vita turbata dall’incedere di visioni fantasmatiche ha la forza di una visione kubrickiana. Prigioniera tra quelle mura per i tre giorni delle festività natalizie, Diana subisce le angherie di un Potere che la osserva, la spia, la veste – ed è magnifico l’insistere della regia sulla sfilata di abiti, tessuti e accessori, che scandisce ordinatamente le diverse ore del giorno –, in una parola: la corregge. A questo personaggio Kristen Stewart – che a giudizio di chi scrive avrebbe meritato il riconoscimento veneziano alla miglior interprete femminile – dona una figura esile e il disagio di chi teme costantemente di trovarsi nel posto sbagliato. Tutto in lei, dallo sguardo, alla voce, alle inclinazioni del capo, al broncio che le piega gli angoli della bocca concorre a esprimere una precarietà, che è insieme del personaggio e dell’attrice.

L’assunto del film, poi – ossia che il Potere sia anzitutto una estetica impiegata per riscrivere la storia – non è nuovo e ha, infine, ragione chi sostiene che questa Diana (a differenza del geniale ritratto di Jacqueline Kennedy in Jackie) con le sue idiosincrasie, le sue rabbie, le sue fragilità non sia poi lontana dall’immagine che i rotocalchi e la vulgata hanno negli anni propagandato. Ciò che vi è di nuovo è invece nella ricerca insistita di un dialogo con le forme di certo horror autoriale, nella presenza di una impalcatura “di genere”, che non si limita a sostenere, ma informa interamente la vicenda narrata, sino a sfociare in un impossibile lieto fine che rimarca, ancora una volta, come il cinema possa essere più grande della vita.

Matteo Pernini – MCmagazine 69

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