Re Granchio

Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis

Tardo Ottocento. Luciano è un uomo sbandato e solitario che vive in un borgo della Tuscia. In un estremo tentativo per proteggere dal dispotico principe la donna che ama, Luciano commette un atto scellerato che lo costringe a fuggire in esilio nella Terra del Fuoco. Qui la ricerca di un mitico tesoro, al fianco di marinai senza scrupoli, si trasforma per lui in un’occasione di redenzione. Ma la febbre dell’oro non può seminare che tradimento, avidità e follia in quelle terre desolate…


Argentina/Francia/Italia 2021 (99′)

“Il granchio è la bussola, io sono la mappa”

Ci sono film che sono diventano per il pubblico una vera occasione di “cinema esperienzale”. Un termine astruso forse ma che esprimer l’emozione di un’immersione cinematografica in territori inconsueti, sia per la logistica che per le situazioni umane. È il caso di RE GRANCHIO diretto da Alessio Rigo de Righie e Matteo Zoppis che porta in luoghi lontani nel tempo: nella Tuscia, terra ancora feudale dove un principe governa il destino dei propri sudditi, e all’altro capo del mondo, in una Patagonia dalle atmosfere quasi soprannaturali. La storia è ambientata verso la fine dell’Ottocento; Luciano è un uomo sbandato e solitario che, nell’estremo tentativo di proteggere dal dispotico principe la donna che ama, commette un atto scellerato che lo costringe a fuggire in esilio nella Terra del Fuoco. Qui la ricerca di un mitico tesoro, al fianco di marinai senza scrupoli, si trasforma per lui in un’occasione di redenzione. Ma la febbre dell’oro non può seminare che tradimento, avidità e follia in quelle terre desolate… La regia riesce a rendere efficacemente sullo schermo un racconto orale ammantato di leggenda, realizzando un cinema avventuroso e insieme spirituale, capace di stupire lo spettatore e di accompagnarlo in territori inaspettati, tra la magia e la dannazione.

Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis esordiscono nel lungometraggio di finzione con Re Granchio – ospitato in premiere mondiale alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes – con un anomalo e simbolico western ambientato nel tardo Ottocento, racconto che prende le mosse da leggende tramandate dalla tradizione orale, leggenda che appunto, anche nel film, viene introdotta da una tavolata di anziani commensali dei giorni nostri.
Al centro della vicenda, c’è Luciano, esaltato dall’interpretazione di un sorprendente Gabriele Silli, artista che vive a Roma, non-attore amico dei registi, capace di restituire tanto con la mimica quanto con la fisicità la necessaria poetica “cittiana” di una figura sospesa nel tempo, e per questo mitologica. L’amata di Luciano è Emma, ruolo chiave per lo sviluppo della narrazione, interpretata da Maria Alexandra Lungu, già vista e apprezzata in Le meraviglie di Alice Rohrwacher. Sarà proprio per proteggere la ragazza dal principe che Luciano compirà un atto estremo, in seguito al quale verrà costretto ad allontanarsi. In un altro mondo.


La metamorfosi del protagonista coincide con la mutazione del film, intramezzata da un breve ritorno all’oggi necessario per ribadire che da quel momento in poi, in quelle terre “in culo al mondo”, la storia di Luciano è solamente figlia di una ricostruzione ipotetica, sommaria, figlia di molteplici racconti destinati a trasformarsi, arricchirsi, o impoverirsi, di volta in volta. La fitta e inestricabile vegetazione della Tuscia lascia spazio alla vastità di lande infinite e solitarie, lo spagnolo diventa la lingua dominante, Luciano/Padre Antonio (?) e un manipolo di marinai senza scrupoli girovagano alla ricerca di un mitico tesoro. Per certi versi sembra di ritrovarsi catapultati nel bellissimo Jauja di Lisandro Alonso, altro film sospeso nel tempo e in analoghi luoghi, lo sguardo dei due registi – coadiuvati dal magnifico lavoro di Simone D’Arcangelo alla fotografia – non scende a compromessi, mantenendo la fierezza di un’autorialità di genere esaltata sia dalla messa in scena (favorita dalla totalità di sequenze on location) sia dall’accompagnamento narrativo dato da musiche (Vittorio Giampietro il compositore) e canzoni “popolari” frutto, anche queste, di una rielaborazione che ha preso le mosse dal tramandato, creando così una sorta di evoluzione nella tradizione.
Si potrebbe quasi azzardare ad una felice sintesi tra Herzog e Jodorowsky, di fronte a Re Granchio, cinema di ricerca, di migrazione, di conquista, avventura e redenzione, cinema capace di infiltrarsi nella magia delle leggende, della tradizione orale, restituendone la libertà – soprattutto visiva – che difficilmente riesce a trovare sfogo sul grande schermo. Applausi.

Valerio Sammarco – cinematografo.it

 

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