Due donne single, Janis, fotografa affermata e Ana, un’adolescente insicura, diventano madri lo stesso giorno. L’aver condiviso la stessa stanza in ospedale ha creato un vincolo molto forte tra loro e, quando si rincontreranno, la loro esistenza avrà imprevisti e complicati sviluppi. Un racconto di sentimenti appassionati con, sullo sfondo, una Spagna che deve ancora chiudere i conti col suo passato.
Spagna 2021 (120′)
VENEZIA – Dopo aver fatto i conti con la sua storia personale e familiare in Dolor y gloria (Berlino ‘20) Pedro Almodóvar apre il festival di Venezia con Madre paralelas dove torna al tema fondamentale della sua filmografia, la donna, l’eterno femminino, e quindi l’essere figlia e madre. E chiama ad interpretarlo le sue attrici feticcio: Penelope Cruz, Julieta Serrano, Rosy De Palma, con l’aggiunta della brava esordiente Milena Smit.
Sennonché a nostro avviso le perplessità, a livello contenutistico e di sceneggiatura se non formale (l’eleganza, l’incredibile leggerezza e scorrevolezza del suo girare rimangono invariate) sono molte e profonde. Le madri parallele del titolo sono due donne che più diverse non potrebbero essere: Janis (nome scelto dalla madre sessantottina in omaggio alla famosa cantante) è una over40 fotografa di moda che rimane incinta dopo una relazione occasionale con Arturo, un antropologo forense da lei contattato per avere aiuto e chiarimenti su un progetto che da tempo le sta a cuore (e che sarà il clou della seconda parte del film); Ana è una diciassettenne incinta in seguito sembra ad uno stupro di gruppo, sgomenta e (al contrario dell’altra) tutt’altro che contenta e decisa a portare a termine una maternità indesiderata.Ricoverate nel medesimo ospedale, dividono la stessa stanza e danno alla luce nello stesso giorno una bambina che ad entrambe viene momentaneamente tolta per accertamenti… E qui, per dare spessore alla storia o forse solo per consentirle di andare avanti, il regista si vede costretto a ricorrere ad un doppio deus ex machina francamente poco credibile. Non solo, le due donne tornate a casa si rivedono e si avvicinano, fino ad arrivare ad uno rapporto sessuale del tutto improbabile.
Vuole forse Almodóvar dirci che la maternità è l’atto fondativo della personalità della donna (e fin qui possiamo anche essere d’accordo), o forse che le donne possono bastare a se stesse, che la solidarietà tra loro è l’unico sentimento nobile e sincero? O ancora vuole spezzare una altra lancia a favore della libertà sessuale? Ad ogni modo, solo introdotto da un breve aspro dialogo tra le due, laddove Janis chiede ad Ana cosa sappia e da quale parte stia rispetto alla vicenda storica del franchismo, e capisce che la giovane poco sa e tantomeno ha una opinione, il film entra nella sua seconda e ultima parte.
Arturo, il padre casuale, ricompare annunciando di aver finalmente ottenuto i fondi governativi per iniziare gli scavi e riesumare i cadaveri del bisnonno di Janis e di altri combattenti sepolti dai fascisti in una fossa comune nei pressi del villaggio da cui lei proviene. E qui, al netto della bella ricostruzione dell’ambiente rurale (la casa, il cibo, le foto ingiallite dei luoghi e dei morti) di cui Almodóvar è maestro dai tempi di Volver, e del suggestivo. ma un po’ facile finale, con tutti inginocchiati sull’orlo della tomba appena riaperta con musiche, singhiozzi ed epigrafe di Eduardo Galeano, l’approccio del regista spagnolo alla guerra civile spagnola e alle sue tragedie (al plurale si, perché ci fu anche quella di chi stava dall’altra parte) appare artificioso e strumentale. Il tema dei delitti del franchismo (ferita tutt’ora aperta ed al centro del dibattito quasi quotidiano della società e della coscienza spagnola, e paragonabile solo a quella lasciata dalla guerra civile nella ex-Jugoslavia) avrebbe certo meritato un film più strutturato ed inerente.
Qui invece sembra quasi solo uno sfondo con cui dare un significato ‘altro’, più serio e politico,ad una vicenda altrimenti melodrammatica inutilmente complicata e poco interessante. Dolor y gloriaDolor y gloria (per non parlare del corto La voce umana dell’anno scorso a Venezia)aveva tutt’altra unità,forza comunicativa e recitativa, in una parola sincerità.
Giovanni Martini – MCmagazine 69