Estate 1975. Una ragazzina di tredici anni viene restituita alla famiglia cui non sapeva di appartenere. All’improvviso perde tutto della sua vita precedente: una casa confortevole e l’affetto esclusivo riservato a chi è figlio unico venendo catapultata in un mondo estraneo. La regia assiste il romanzo di formazione con tatto, senza strafare nella forma né rimaneggiare la sostanza: fedele al romanzo, pudico nell’ambizione, meditato nello stile.
Italia 2021 (110′)
Abruzzo, 1975. Una macchina troppo elegante sfida le inospitali montagne dell’entroterra per arrampicarsi fino a un paesino fantasma, giungendo davanti a un casolare malmesso dove la civiltà sembra essersi fermata e l’unica presenza di vita è testimoniata da animali da fattoria. Dal veicolo scende una ragazzina di 13 anni ben vestita, curata e con un valigione in mano che rappresenta una vita precedente ormai da dimenticare. Per tutti, d’ora in poi, sarà semplicemente “l’arminuta”, la ritornata.
Inizia e termina in un solo minuto di pellicola il viaggio della protagonista nata dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello del 2017. Se l’incidente scatenante del film di Giuseppe Bonito si presenta in maniera fulminante e rude, lo stesso non si può dire del resto di un racconto tanto sensibile quanto potente: dopo aver già affrontato il tema familiare in chiave comica in Figli, il regista ex pupillo del compianto Mattia Torre espone una storia delicata e intrisa di simbolismo, partorita da una profonda dicotomia tra due mondi lontani e genitrice di un realismo intimo e delicato. L’arminuta del titolo non è altro che una ragazzina dai folgoranti capelli rossi, caratterizzata da un’educazione ben impartita e da occhi malinconici che stentano a credere alla visione della nuova vita. Abbandonata come un pacco postale senza neanche un motivo da quelli che credeva essere i suoi veri genitori, torna a vivere con la sua famiglia d’origine, venendo catapultata in un microcosmo spogliato di ogni elemento a lei familiare: agiatezza, istruzione, affetto e soprattutto parole. Concepita da tutti e soprattutto da se stessa come un alieno, la ragazza “restituita” vive di interrogativi a cui nessuno sembra voler rispondere, dovendo sopportare ogni più intimo dettaglio della sua nuova, soffocante abitazione. La sua formazione di giovane donna viziata dalle attenzioni tipiche dei figli unici si spezza perché non più meritevole di considerazione in un mondo dove l’amore è costretto a lasciare spazio al necessario e la convivenza è unicamente sinonimo di sopravvivenza.
Annaspante in un calderone di dialetto stretto, piccole stanze buie e sovraffollate, carezze mancate e persino promiscuità, l’arminuta troverà proprio nel suo nuovo habitat una nuova linfa vitale, arricchita da un’intelligenza innata e da una neo-sorellina che si prenderà cura di lei più e meglio di qualsiasi genitore. La piccola aliena, figlia di due madri e di nessuna, trasforma il rifiuto in emancipazione. Aiutata da una regia e una fotografia mai artificiose, la narrazione di Bonito centra in pieno l’obiettivo, operando in un connubio a cavallo tra realismo sporco ed estetica formale, servendosi di una prova recitativa corale (prettamente femminile) da applausi. In particolare, le prove attoriali delle due giovanissime protagoniste Sofia Fiore e Carlotta De Leonardis rappresentano un doppio esordio magistrale.
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