Medellín, 1983. Héctor Abad Jr., studente di letteratura a Torino, rientra nella Colombia natale per assistere al congedo ‘forzato’ del padre dall’insegnamento universitario. Héctor Abad Gómez, medico e attivista colombiano per i diritti umani, è inviso al regime. Durante la cerimonia, il figlio evoca la sua infanzia e quel padre adorabile e ingombrante che gli ha insegnato il valore dell’amore e il rispetto per il prossimo.
El olvido que seremos
Colombia 2020 (136′)
Inizia in un cinema, e in Italia il nuovo film di Fernando Trueba. È l’adattamento del romanzo di Héctor Abad Faciolince, considerato un capolavoro della letteratura contemporanea ispanoamericana. E La nostra storia parte proprio da qui, da quel film che il protagonista, Héctor, e la sua fidanzata, vedono in un cinema di Torino nel 1993. Quel film è Scarface di Brian De Palma. È la storia di un narcotrafficante, di spari, di cadaveri. Ed è, forse, u n presagio di quello che vedremo nel film, che è il racconto della vera storia del padre di Hèctor. La nostra storia la racconta con un tono sincero e sentito, dove le vicende vengono viste attraverso lo sguardo affettuoso di un figlio verso suo padre, e la vita pubblica è filtrata attraverso la vita familiare e domestica.
Quel che il film racconta è una vicenda realmente accaduta. È quella del padre Héctor Abad Faciolince, l’attivista colombiano per i diritti umani Héctor Abad Gómez, interpretato da Javier Cámara. Da Torino ci trasferiamo a Medellin, dove il protagonista è chiamato per la cerimonia di congedo del padre dalla sua cattedra all’università. È un congedo forzato, perché il professore, per le sue idee politiche, è considerato scomodo. Proseguirà con la sua missione da attivista, e politico, ma il suo impegno continuerà a non piacere. E lo porterà a una fine tragica. Dal bianco e nero, ricco di tantissime sfumature di grigio, come quello che abbiamo visto in Roma, dell’inizio, passiamo a un’immagine a colori. Sono quei toni caldi e tenui che, da sempre, nella nostra memoria come al cinema, siamo soliti associare agli anni Settanta. Ed è caldo e tenue, anche il tono del racconto. Le scene di vita familiare che si susseguono sullo schermo ci fanno sentire il calore di una famiglia, per quanto, a volte, ci sembrino manierate, o un po’ ridondanti. La cosa più riuscita del film è il rapporto tra il figlio, che è il narratore che ci porta dentro la storia, e il proprio padre, un padre adorato, stimato, una guida nella propria vita.
I fatti tragici da cui è composta la storia, e che ne diventano il centro, irrompono man mano che il film prosegue, e ci porta da qualche parte che, visto il tono iniziale, non ci aspettavamo. Quel tono lieve, giocoso, del racconto, però, continua per gran parte del film. E forse il rischio è che tenda a farci sottovalutare la gravità di alcuni fatti… Così l’epilogo tragico, seppur annunciato, arriva comunque in modo scioccante. Il chiudersi in un racconto intimo e familiare forse fa vedere troppo poco di quello che accade intorno, di contestualizzare il racconto nella Colombia della corruzione e dei narcotrafficanti.
Maurizio Ermisino – movieplayer.it