1936. Giovanni Comini è stato appena promosso federale, il più giovane che l’Italia possa vantare. Ha voluto così il suo mentore, Achille Starace, segretario del Partito Fascista e numero due del regime. Comini viene subito convocato a Roma per una missione delicata: dovrà sorvegliare Gabriele d’Annunzio e metterlo nella condizione di non nuocere… Già, perché il Vate, il poeta nazionale, negli ultimi tempi appare contrariato, e Mussolini teme possa danneggiare la sua imminente alleanza con la Germania di Hitler. Ma al Vittoriale, il disegno politico di cui Comini è solo un piccolo esecutore inizierà a perdere i suoi solidi contorni e il giovane federale, diviso tra la fedeltà al Partito e la fascinazione per il poeta, finirà per mettere in serio pericolo la sua lanciata carriera.
Italia 2021 (108′)
Nonostante alcuni professori si impegnino con tutte le loro forze per rendere i poeti italiani noiosi e pedanti, Gabriele D’Annunzio è uno dei pochissimi ad aver sempre esercitato sugli studenti una sorta di fascinazione legata alla lascivia delle abitudini, alla voglia di circondarsi di cose belle e preziose senza vergognarsi di un estetismo che è diventato leggenda ma che, certe volte, era solo la smerigliatura di qualcosa di opaco, deformato da racconti totalmente infondati. Associamo D’Annunzio al Vate che conquistò Fiume e vi istituì un ordine costituzionale nel quale le donne avevano diritto di voto ben prima del suffragio del ’46; al poeta che passò per il pineto mentre la pioggia cadeva sulle «tamerici salmastre ed arse»; all’erotomane che, secondo i pettegolezzi tramandati di studente in studente, si fece togliere le costole per praticare l’auto-fellatio (o era Marilyn Manson?), ma mai all’uomo incurvito e stanco che, nei suoi ultimi anni di vita, vagava per i cortili del Vittoriale come il fantasma di sé stesso, campando di rendita nei confronti di un mito che non si era ancora spezzato ma che cominciava a mostrare i primi logorii del tempo.
Il Cattivo Poeta, il primo film diretto da Gianluca Iodice prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris, parte da qui: da un D’Annunzio rabbonito dall’età e seriamente preoccupato che il Duce potesse perdere la brocca e danneggiare il Paese.
Da qui il bisogno, da parte del Partito Fascista, di tenerlo d’occhio e di capire le sue intenzioni affinché non intortasse gli italiani con una delle sue lezioni. Giovanni Comini, interpretato da un bravissimo Francesco Patanè, è il nome giusto al momento giusto: è il federale più giovane che l’Italia possa vantare, segue direttamente gli ordini del suo mentore Achille Starace, il numero due del regime, e, anche per via dei suoi studi letterari, è perfetto per portare a compimento una missione delicatissima: sorvegliare Gabriele d’Annunzio e metterlo nella condizione di non nuocere a Mussolini e, in modo particolare, all’imminente alleanza con la Germania di Hilter. Comini, giovane, con il fuoco negli occhi e la tipica voglia di fare dei ragazzi che hanno tutto da dimostrare, naturalmente accetta, si trasferisce al Vittoriale e cerca di conquistare la fiducia di un D’Annunzio interpretato da un monumentale e irriconoscibile Sergio Castellitto, che qui si presenta calvo, imbolsito e con pochissimi crucci da risolvere, come smuovere il governo affinché i lavori per l’anfiteatro del Vittoriale riprendano il prima possibile. Attraverso gli incontri con il Vate, Comini inizia, però, a maturare qualcosa che prima non si era mai concesso: farsi delle domande.
Attraverso quel microcosmo così fragile eppure così indistruttibile, con il Poeta che vaga solitario per i corridoi scortato da una piccola corte che va da Amélie Mazoyer (Clotilde Courau) a Giancarlo Maroni (Tommaso Ragno), Comini inizia a capire che la fede cieca nei confronti del Partito ha un lato oscuro che si era sforzato di non vedere: la persecuzione delle persone che osano mettere in dubbio le imprese del Duce, il papà che teme di essere arrestato dal figlio quando un alone del bicchiere si deposita sulla fotografia di Mussolini stampata sul giornale, la paura di dire o di fare la cosa sbagliata per timore di essere defenestrato, imprigionato o addirittura ucciso. Insieme al percorso personale di Patanè, che è solo una pedina manovrata un po’ dal Partito e un po’ dal Vate, il cuore centrale del film è soprattutto la certezza vacua in un ideale più grande e la tragedia nel constare di non poter fare poi molto di fronte a una forza così distruttiva e dirompente.
La scena in cui D’Annunzio e il Duce si incontrano a Verona, con il Cattivo Poeta che lo avverte che siglare l’accordo con Hitler sarà la sua rovina e Mussolini che gli sorride senza proferire parola, lasciando colui che aveva fatto della dialettica la sua missione vita senza più parole da utilizzare, è forse il punto di svolta sia per il Vate, che pensa di non avere più uno scopo, sia per Patanè, che capisce che è quello il punto dal quale partire. Con la sua fotografia antichizzata e un’impostazione attoriale molto teatrale e manichea, peculiarità perfetta per esprimere una corte, quella del Vittoriale, che sembra più il palcoscenico di un’opera in movimento che una dimora nella quale abitare ma anche morire, Il Cattivo Poeta, frutto di una coproduzione italo-francese, è il ritratto perfetto di un decadimento graduale, la versione inedita di una storia che pensavamo di conoscere ma di cui, invece, ignoravamo le intenzioni e la radice più profonda..
Mario Manca – vanityfair.itl