Italia/Germania/Francia 2021 (93′)
VENEZIA – Milano, 1961. Una trasmissione televisiva in grossolano bianco e nero ci illustra la costruzione, in pieno boom economico, del grattacielo Pirelli, allora il più alto d’Europa. È visibile, nell’impeto del cronista arrampicato sull’impalcatura dei lavavetri, l’orgoglio per quel risultato che proietta simbolicamente l’Italia nel novero dei paesi avanguardisti e, più ancora, delle principali potenze economiche del continente. Calabria, Parco Nazionale del Pollino, 1961. Un gruppo di speleologi disceso dal Nord Italia si propone di esplorare l’Abisso del Bifurto, una profonda grotta carsica, di cui allora non si conosceva la geografia. Accompagnati da pochi pastori esperti di quelle terre inesplorate, il loro difficoltoso viaggio per discese e strettoie dura settimane e si conclude a una profondità di -687 metri, là dove le vie interne si interrompono e il baratro si richiude.
In questo doppio movimento verticale verso l’alto e verso il basso Michelangelo Frammartino, a undici anni dall’acclamato capolavoro Le quattro volte (2010), trova la direttrice di un film che connette lo zenit e il nadir dell’Italia postbellica, immaginando una sorta di storia parallela del nostro paese che passa attraverso la conformazione del paesaggio: da una terra maneggiata, organizzata, ristrutturata, su cui palazzoni si incastrano come protesi dentarie all’imprevedibile natura arcaica e rocciosa di un terreno in cui, d’un tratto, si apre una piega che porta all’abisso. Se l’inquadratura in incipit, che dal nero dissolve su una impossibile soggettiva della grotta, è già una apertura magistrale, la visione in campo lungo e dall’alto di quel pozzo che sembra curvare il terreno circostante come una superficie per effetto di gravità rimane una delle immagini memorabili della Settantottesima Mostra del Cinema di Venezia. Una immagine in cui Frammartino fa convivere la sacralità di un paesaggio intonso, il lavorio umano degli omini che si arrabattano sul bordo dell’abisso (e il gioco: splendido l’intermezzo in cui due speleologi giocano a palla dai lati opposti del buco) e la fascinazione per un mistero – cosa vi è oltre la fessura? – che innerva il film e l’avventura stessa dei suoi protagonisti.
Proseguendo la ricerca stilistica iniziata con Il Dono (2003) e il già citato Le quattro volte (2010), Frammartino affina il suo stile di pura contemplazione, mutuato dall’estetica del nume tutelare Franco Piavoli. Uno stile di cui riconosciamo subito le specificità: dialoghi ridotti all’osso e rimpiazzati dai suoni di una natura incontaminata – le urla dei pastori, i loro mugugni, così prossimi al verso degli armenti che essi conducono, il mormorio del vento, l’eco della grotta in cui si amplifica lo stillare dell’acqua –, preminenza assoluta del paesaggio – di cui l’uomo è parte integrata, non distinta –, visione (semi)statica e dal gusto pittorico, seppure senza alcun artificio o patinatura.
La tavolozza di Frammartino, che ci ha donato negli anni i verdi, i bianchi e gli azzurri più belli e più espressivi del nostro cinema recente, si confronta qui con la difficoltà di girare in un ambiente buio, illuminato dalle sole luci artificiali. L’esito è una partitura di neri (l’oscurità del sottosuolo) e ocra (le lampade a carburo) che lascia ammirati ed è più che doveroso renderne merito per esteso al direttore della fotografia Renato Berta e all’operatore di macchina Luca Massa (ai quali aggiungiamo, per completezza e per ammirazione, il fonico Paolo Benvenuti). Nel lungo tempo che è occorso al regista per la messa in immagini di questa avventura, i suoi sodali l’hanno affiancato inerpicandosi su e giù per le pareti della grotta con svariati chili di macchina da presa e attrezzature piantate in spalla, così da fissare in immagini ogni anfratto di quel luogo antico e fascinoso, dove il passaggio delle torce a illuminare la roccia, dandole vita, ci ricorda in alcuni momenti quell’esperienza folgorante che fu la passeggiata di Werner Herzog nella Grotta Chauvet in Cave of Forgotten Dreams (2010).
E nel mentre questi uomini si insinuano nelle arterie della Terra, Frammartino segue la parallela vicenda di un pastore, che vive i suoi ultimi mesi in piena armonia col paesaggio che l’attornia. In una delle invenzioni di montaggio più belle dell’intero film, il lume gettato da una torcia sul fondo nero della spelonca diviene la luce con cui un medico scruta l’occhio del vecchio, a suggerire un equilibrio di carne e natura, che poche volte sullo schermo è stato reso con tanta elegiaca sincerità.
Matteo Pernini – MCmagazine 69