Holy Motors

Leos Carax

A bordo di una limousine, un uomo d’affari trascorre ventiquattr’ore prendendo le sembianze più disparate, vivendo vite diverse e una miriade di situazioni stranianti e fuori dal comune. A guidarlo, l’assistente Céline… Un film dissacrante e dadaista sulla pluralità delle forme dell’immaginario contemporaneo.


Francia/Germania 2012 (115′)


  Il ritorno al cinema di Léos Carax dopo un lungo silenzio è quanto di più simile a un viaggio al termine della notte (si guardi il nome dell’accompagnatrice del protagonista), una girandola di situazioni che, come il personaggio di Denis Lavant, è pronta ad assumere le incarnazioni più multiformi. Nel prologo c’è lo stesso Carax che apre una parete con un chiavistello e sembra inoltrarsi in prima persona nel proprio stesso film: un preludio a ciò che si vedrà di folgorante narcisismo. Il resto dell’operazione non è da meno: inserti metafisici sulla performance capture, modelle rapite, sequenze antologiche e un ritrovato gusto per l’invenzione dissennata e spericolata guidato dallo spirito maudit di un tempo. Quello di Carax è un film sulla pluralità delle forme dell’immaginario contemporaneo ma anche sulla solitudine dell’immagine globalizzata, destinata a reiterarsi in forme spiazzanti e forse anche arcaiche per sopravvivere a se stessa. Si parte con immagini sullo studio del movimento del corpo umano di Étienne Jules Marey, pioniere del pre-cinema, e si giunge a un parcheggio/cimitero di automobili che parlano tra loro, riflettendo sulla possibile fine che potrebbero fare: una conclusione tragica e grottesca allo stesso tempo, che sottolinea come questo sia anche un grande film sulla morte (dell’attore e del cinema tutto, forse). Edit Scob, proprio nel finale, torna a indossare la maschera che l’aveva resa grande in Occhi senza volto di Georges Franju e, non a caso, è soltanto nel “ritorno alla realtà” che si troverà a indossare proprio un volto che non è il suo. Tra Pirandello, iconografia contemporanea e un eterno ritorno dai contorni nietzscheiani, un grande film filosofico e capace di parlare della contemporaneità con grande spessore.

longtake.it

Una giornata dell’esistenza di Monsieur Oscar, che di professione passa da una vita ad un’altra, da un personaggio ad un altro, scortato ad ogni appuntamento da una limousine bianca, guidata lungo le strade di Parigi da Céline, misteriosa signora bionda. Un’esistenza stimolante e distruttiva, che Oscar sostiene di condurre ancora “per la bellezza del gesto”, che gli impone di essere creativo ogni volta, e di quel motore dell’azione di cui il mondo sembra sempre più fare a meno. Nei differenti appuntamenti di Oscar, che lo vedono affarista finanziario, vecchia mendicante, performer per realtà virtuali, signor Merde, killer dei bassifondi, vecchio morente, padre di famiglia e altro ancora, Carax esplora diversi generi ma soprattutto entra nel cinema che ha amato e che ama, da Tod Browning a Franju, da Cocteau a Bertolucci, da Charles Bronson a Vidor, da Kubrick a René Clair. Ci entra attraverso una porta invisibile com’è una sforbiciata di montaggio, o come quella che lo stesso Leos Carax, all’inizio del film, scova nella scenografia della sua stanza da letto e che lo porta, appunto, dentro una sala cinematografica.
Dopo alcuni sbandamenti, più o meno clamorosi, Carax è orgogliosamente tornato ai livelli d’invenzione e di passione di Rosso Sangue, non a caso un altro film fatto di fantasmi di celluloide, noir e pop, e un altro viaggio verso la morte. Perché Oscar è tutti e nessuno, condannato alla solitudine così come alla presenza in scena, un clown sofferente e un vampiro: un (grande) attore, insomma. Come Denis Lavant, che gli presta volto e corpo: un punto fermo per il regista, che non per niente è stato condiviso anche da Harmony Korine, che ci ha visto Chaplin.

“Intello” sì, ma comunque sempre più viscerale che cerebrale, Holy Motors va salutato come un film evento, perché se il cinema è morto questa è la prova che il suo culto è più vivo che mai e che possiamo ancora essere sorpresi e illuminati. Notturno e tristissimo, anche nelle ore diurne, il film non è un monologo interiore, nonostante il regista viva di cinema, ma, al contrario, cerca disperatamente di instaurare un dialogo col pubblico della sala e di scuoterlo dall’apatia (la platea evocata all’inizio è immobile, semidormiente), senza prediche, con le sole armi del pensiero e della dissacrazione. Meglio dadaisti che paranoici, urla in silenzio Carax, meglio primitivi che digitalizzati. Straordinari anche i luoghi delle riprese (la villa-nave dell’uomo d’affari, l’orto sul tetto della Samaritaine e l’interno “storico”) e la disponibilità che il regista ha ottenuto da Eva Mendes.

Marianna Cappi – mymovies.it

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