Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), ladro di automobili, uccide un poliziotto e fugge fino a Parigi. Qui si mette alla ricerca di Patricia Franchini (Jean Seberg), una studentessa americana che aveva conosciuto qualche tempo prima e di cui si era innamorato. La ritrova, ma lei presto si stufa di lui e finirà per denunciarlo alla polizia. L’opera prima di J.-L. Godard, che divenne il manifesto della Nouvelle Vague e contribuì alla trasformazione linguistica del cinema negli anni ’60, sfidando le regole canoniche della grammatica e della sintassi tradizionali.
À bout de souffle
Francia 1960 (90′)
BERLINO 10° – Orso d’argento per la miglior regia
Michel, giovane dal passato burrascoso, ruba un’automobile e fugge col proposito di recarsi in Italia. Inseguito da due agenti, ne uccide uno, e continuando la sua fuga, giunge a Parigi. Dopo essersi rivolto ad alcuni amici per ottenere del denaro, va in cerca di Patrizia, giovane americana, per la quale sente un sincero affetto. La ragazza però non ricambia il suo sentimento e continua a farsi corteggiare da un collega al giornale dove anch’essa è occupata. La polizia intanto fa indagini per scoprire l’assassino dell’agente e avendo accertato che si tratta di Michel, si dà da fare per catturarlo. Nel corso delle ricerche viene interrogata anche Patrizia, la quale afferma di non saper nulla, e riesce poi a nascondersi con Michel in casa di amici. Il giorno seguente la ragazza, essendosi resa conto ch’ella non ama il giovane non esita a denunciarlo alla polizia. Incontrato per la strada dagli agenti, Michel viene ucciso con una pistolettata.
Parigi 1959, il centro del mondo. Godard dirige, Truffaut scrive. Belmondo/Poiccard, piccolo omicida, corre a perdifiato per sfuggire alla polizia e a cinquant’anni di cinema di papà; Jean Seberg vende l’“Herald Tribune” sugli Champs Elysées, s’innamora, lo tradisce: ‘déguelasse’. Poco budget, molto amore per il B-movie americano, sguardi in macchina, jump-cuts, l’euforizzante sensazione che tutto sta per ricominciare. Irripetibile, e forever young. “Fino all’ultimo respiro appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso. Per di più Fino all’ultimo respiro era il genere di film in cui tutto era permesso, era nella sua natura. Qualsiasi cosa faccia la gente, tutto poteva essere inserito nel film. È proprio questa l’idea da cui ero partito. Pensavo: c’è già stato Bresson, è appena uscito Hiroshima, un certo tipo di cinema si è appena concluso, forse è finito, allora mettiamo il punto finale, facciamo vedere che tutto è permesso. Quello che volevo era partire da una storia convenzionale e rifare, ma diversamente, tutto il cinema che era già stato fatto”. (Jean-Luc Godard)i.
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Il manifesto della Nouvelle Vague, il capolavoro di Jean-Luc Godard, il (vero) capostipite del cinema moderno: è stato chiamato in tanti modi Fino all’ultimo respiro nel corso della storia del cinema, ma qualsiasi definizione, forse, non basta a renderne la portata epocale. Indubbiamente tra gli esordi più impressionanti di sempre, l’opera prima di Godard si avvale della collaborazione di François Truffaut (autore del soggetto), di una coppia di attori in stato di grazia (Belmondo-Seberg) e di un montaggio (Cécile Decugis) semplicemente memorabile. Mettendo in pratica le idee innovative che i “giovani turchi” (oltre a Godard e Truffaut, anche Claude Chabrol, Eric Rohmer e Jacques Rivette) promuovevano qualche anno prima sulle colonne dei Cahiers du Cinéma, il giovane regista costruisce un grande omaggio al cinema del passato (i riferimenti a Humphrey Bogart e al poliziesco americano) con uno sguardo, però, proiettato verso il futuro. Godard rivoluziona il linguaggio della settima arte oltrepassando i convenzionali tabù del cinema classico hollywoodiano: i personaggi guardano direttamente in macchina arrivando persino a rivolgersi verbalmente allo spettatore («Se non vi piace il mare… se non vi piace la montagna… se non vi piace la città… andate a quel paese!»). I piani-sequenza si alternano ai jump-cut (dei veri e propri “salti” della pellicola), la pista visiva è frammentata mentre quella sonora prosegue tranquillamente, gli scavalcamenti di campo sono continui: Fino all’ultimo respiro è un manifesto, anche politico, che arriva a frantumare le regole fondamentali del montaggio contiguo e della narrazione cinematografica. È la miccia che ha portato all’esplosione di un “cinema nuovo”, che attraverserà tutti gli anni Sessanta in diverse nazioni di tutto il mondo. Girato tra le strade di Parigi, in pochi giorni e con un budget ridotto. Nel cast, è presente un autore che Godard amava: Jean-Pierre Melville, che veste i panni di Parvulesco.
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Un progetto ferreo guida le azioni di Michel Poiccard (ha anche un nome falso – Laszlo Kovàcs – per sfuggire alla polizia), banditello insolente di una improbabile malavita. Più i gesti e le decisioni sembrano liberi, più si avverte la costrizione del destino. Il caso è il padrone della vita di Poiccard, così come del film è padrone un regista impegnato a scardinare la sintassi cinematografica per inventarne una nuova, ancora più vincolante (il coordinamento delle azioni ha la precisione matematica di un congegno perfetto). Michel viaggia in macchina verso Parigi. Parla fra sé e allo spettatore (ci guarda, comunicandoci le sciocchezze che gli passano per la testa: “Amo molto la Francia”). Un sorpasso azzardato provoca un inseguimento della polizia. Michel esce di strada, attira il poliziotto in un tranello e lo stende (è un predestinato alla fuga, nella tradizione del populismo del cinema francese d’anteguerra: un Jean Gabin senza angosce crepuscolari). Lo ritroviamo a Parigi. Si attacca al telefono, cerca uno che gli deve dei soldi (il telefono e i soldi saranno le sue due ossessioni): i segni del caso che lo perderà e che il regista sottolinea accuratamente. Va da una ragazza, si fa dare un po’ di franchi e altri gliene ruba. Sui Champs Elysées incontra Patricia, una ragazza americana che vende giornali: è da tempo che la cerca. Poi, tenta di risolvere il problema dei soldi. La polizia ormai è sulle sue tracce, una sua foto è apparsa sui giornali. Correndo da un posto all’altro (sono sempre stacchi bruschi, il tempo del racconto subisce continue contrazioni e sobbalzi), si ferma davanti a un manifesto di Humphrey Bogart: lo guarda come si guarda un modello da imitare, e si passa lentamente un dito sulle labbra (gli accenni al cinema sono frequenti, quasi un motivo conduttore: A bout de souffle è un’apologia del film d’azione americano e del cinema come “rifugio” e come sostituto della vita).
Ritrova Patricia, evita un poliziotto che lo segue. Patricia lo lascia, deve incontrare un giornalista americano che la introdurrà in redazione. Michel spia la ragazza con il giornalista in un caffè: i due passeranno la notte insieme. Il mattino seguente Patricia torna nella stanza dell’albergo dove abita (lo “sdoppiamento” fra due, o mille, amori è simboleggiato dalla sua figura riflessa in una vetrina). Trova Michel a letto. Comincia una lunga schermaglia, gesti gratuiti, battute sospese fra “presse du coeur” e serioso impegno culturale (“Pensi alla morte qualche volta?”, “Dimmi qualcosa di carino” : il regista controlla il pastiche con sapienza e ironia). Finiscono a letto, giocano sotto il lenzuolo, fragile riparo per un amore impossibile – ricompaiono (non citate, a differenza delle tante allusioni al cinema americano) le ombre fatali di Jean Gabin e di Michèle Morgan, il “destino” di Quai des brumes. Si alzano, tornano a letto, fanno l’amore. Escono. Michel ruba una macchina bianca, bellissima (la macchina dei sogni: questa è una fiaba moderna). Un passante (lo stesso regista) lo segnala a un agente. Michel accompagna Patricia all’aeroporto, per una conferenza stampa (il suo primo impegno pro fessionale). Uno “sfasciacarrozze” tenta di truffarlo, in lui si vendica. Lei “semina” un poliziotto, ma, alla sede del giornale, non può esimersi dal confessare al commissario che effettivamente questo Poiccard lo conosce. Di nuovo insieme, sfuggono a un pedinamento, sfiorano una parata sui Champs Elysées (sfilano Eisenhower e De Gaulle: la “storia” passa e non li tocca), vanno al cinema. È sera. Michel incontra l’amico Berruti, per i soldi. Trovano ospitalità nell’atelier di un fotografo, ascoltano il concerto per clarinetto e orchestra Mozart. All’alba Patricia esce di soppiatto e va telefonare alla polizia. Rientra e gli dice che l’ha denunciato (“Ecco la prova che non sono innamorata di te”). Michel ha perduto la voglia di lottare. Berruti lo raggiunge e gli porge una borsa coi soldi e una pistola. La polizia spara. Colpito alla schiena, Michel corre barcollando (un lungo carrello lo segue). Cade a un incrocio, sulle strisce pedonali. Patricia è accorsa. Michel si passa un dito sulle labbra. La insulta, ma lei, straniera poco esperta di finezze linguistiche, non capisce.
Jean-Luc Godard apre con A bout de souffle – circa un’ora e mezza di proiezione – il suo personale discorso nel quadro della nouvelle vague. La finta spontaneità tradisce una matrice letteraria di lega mediocre (siamo nei dintorni della Sagan piuttosto che in quelli di Camus), ma si accampa sullo schermo con grande vivezza. Solo nei film successivi, non più fiabe ma apologhi moralistici, Godard riuscirà a plasmare una nuova forma, abbandonando ogni preoccupazione narrativa e affidandosi totalmente al libero espandersi delle metafore (sulla traccia della grande lezione ejzenstejniana): soprattutto in Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962), Une femme mariée (Una donna sposata, 1964), Pierrot le fou (Il bandito delle ore undici, 1965), Weekend (Weekend, 1967).