Dune

Denis Villeneuve

Undicesimo millennio. Il pianeta Arrakis, conosciuto anche come Dune, dopo essere stato dominato per decenni dalla perfida casata degli Harkonnen passa sotto il controllo della benevola casata Atreides. Il duca Leto Atreides, valoroso signore della casata, intuisce subito che si tratta di una mossa studiata dall’imperatore dell’universo per eliminare il popolo a cui appartiene. In gioco c’è il controllo della Spezia, preziosa sostanza presente solo su Dune che fornisce capacità mentali sovrumane e rende possibili i viaggi interstellari. Quando il conflitto esplode, sarà compito del giovane Paul Atreides e di sua madre Lady Jessica, membro della sorellanza esoterica Bene Gesserit, condurre il popolo degli Atreides verso la libertà.

USA 2021 (155′)

 VENEZIA – Nel 1984 David Lynch porta per primo sul grande schermo (vi aveva provato infruttuosamente Alejandro Jodorowksy negli anni Settanta >) l’ambiziosa riduzione in immagini > del capolavoro di Frank Herbert Dune, romanzo capostipite di una serie in sei volumi redatti tra il 1965 e il 1985.


    L’opera narra le vicende di un’umanità proiettata in un remoto futuro, ove due casate rivali, gli Atreides e gli Harkonnen, si contendono – sotto l’egida dell’imperatore – il controllo di Arrakis, unico pianeta del sistema conosciuto da cui si possa ricavare l’agognata “spezia”, una sorta di droga capace di potenziare le facoltà umane e unico strumento in grado di consentire il viaggio intergalattico a velocità superluminale, necessario per mantenere attivi i contatti tra i mondi e, dunque, per la stabilità economica dell’impero. Questo brevissimo sunto non rende minimamente giustizia di un’opera-mondo assai complessa e stratificata, ove si interpolano saghe familiari, lotte intestine per il potere, epici scontri tra eserciti rivali, sotterfugi operati da un misterioso ordine parareligioso e, ancora, inganni, tradimenti, sconfitte, rinascite e fascinazioni messianiche, il tutto sullo sfondo di un suggestivo pianeta desertico popolato, nel sottosuolo, da giganteschi vermi pronti a divorare qualunque creatura di cui avvertano la presenza dal ritmico calpestio delle sabbie.

Come si vede, pensare di contrarre questa vastissima complessità di rimandi entro i confini di una singola opera filmica è prerogativa del pazzo o del genio. O, ancora, del pazzo e del genio assieme. David Lynch ha certamente di entrambi, ma gli interventi di una produzione troppo ansiosa e invadente hanno finito col castrare le enormi ambizioni del suo autore: per quanto irriducibilmente affascinante – e, checché ne dicano i detrattori, pienamente lynchiano – il primo Dune si configura come un esperimento visivamente entusiasmante quanto drammaturgicamente debole, coi suoi rapidissimi e inesplicati passaggi da una scena all’altra.

La ripresa di questo progetto per mano del quotato regista Denis Villeneuve ha, dunque, catturato fin dal principio l’attenzione degli appassionati, fiduciosi di poter finalmente assistere a una riduzione del romanzo che non tradisca le (alte) aspettative. Compito non facile quello che ha gravato sulle spalle dell’autore canadese, del resto avvezzo, dopo l’esperienza di Blade Runner 2049, a confrontarsi col rifacimento di opere ritenute intoccabili e scansare a testa alta le conseguenti accuse di blasfemia.

L’esito di questa entusiasmante scommessa è all’incirca prossimo a quello del precedente rifacimento del capolavoro di Ridley Scott. Così come Blade Runner 2049 rinverdiva le suggestioni dell’originale, aggiornandole – si veda l’insistenza sul disastro ecologico e il trasferimento a una socialità virtuale – a quanto accaduto negli ultimi decenni sullo sfondo di una messa in immagini di raffinatezza tipicamente contemporanea, Dune recupera la fascinazione visiva del precedente lynchiano – la prima irruzione del vermone è resa in identiche inquadrature – per declinarla secondo un gusto per la messa in scena tanto elaborato da sfiorare la maniera.
A dispetto, poi, delle esigenze produttive che avevano costretto Lynch a chiudere la narrazione in poco più di due ore, Villeneuve restringe il racconto alla sola prima parte del romanzo e vi dedica, inoltre, la bellezza di 155 minuti, delegando a un eventuale (dipende da come andranno gli incassi) secondo capitolo il prosieguo della vicenda.


La scelta è azzeccata, poiché la dilatazione temporale, oltre a consentire un più agevole sviluppo delle vicende e dei personaggi, permette al regista di insistere su quell’aggiornamento al presente delle metafore politiche già presenti nel romanzo e del tutto, o quasi, eluse dalla versione di Lynch, in specie quella che vede negli indigeni cacciati tra le sabbie di Arrakis la versione potenzialmente rivoluzionaria di un Terzo Mondo minacciato da spietate forze capitaliste che mirano alle sue risorse.
A questo fondamentale sviluppo tematico va aggiunto il discorso interno che il film si impegna di sottecchi a intavolare col complesso dell’opera del regista, sfruttando il capolavoro di Herbert per rimuginare su alcuni elementi topici del suo cinema, su tutti l’incontro pacificatore tra civiltà – già ampiamente sviluppato in Arrival (2016) – e il ruolo delle lande desertiche a significare uno spazio vergine oltre-la-frontiera che è al contempo fisico e mentale – luogo fondamentale de La donna che canta (2010).

Ciò che si rimprovera a Villeneuve è, però, di aver troppo aderito ai didascalismi tipici dei film ad alto budget, col paradossale risultato che laddove la versione di Lynch peccava per eccesso di oscurità, qui ogni ipotesi di mistero è fugata dal ricorso a una immediata delucidazione, persino ripetuta a parole laddove l’immagine avrebbe rischiato di lasciare troppe ambiguità – si veda l’insistenza sulla natura messianica del protagonista, di certo cruciale per la storia, ma fin troppo detta e troppo poco esibita. O, altresì, la seriosità imperante nel tratteggio dei personaggi, che non lascia alcun margine di ironia e adorna di una cappa eccessivamente pensosa una materia che pensosa non è. Il barone Harkonnen, che nella versione di Lynch si muoveva in equilibrio tra crudeltà e cialtroneria e incarnava tutta la goffaggine del potere, è qui solo una figura greve e minacciosa che non sfigurerebbe in un episodio delle ultime Guerre Stellari.

Del resto, non vi è spazio per accenti fuori dall’ordinario in un film tanto rigorosamente calcolato in sede di sceneggiatura e in cui ogni volto, gesto, oggetto, edificio è ingombrante e maestoso, incorniciato in una messa in scena magniloquente, ove l’accurata gestione degli spazi nelle inquadrature trasforma persino gli interni più scuri e trafitti da poche lame di luce in luoghi di solenne maestosità. Appoggiandosi, come ci si attende in film di queste dimensioni e ambizioni, su una manciata di riferimenti pittorici di età romantica per le pose e i colori, Villeneuve crea un’opera di puro sguardo, che, se pure tradisce una certa convenzionalità di scrittura, seduce, poi, per forza di immagini, rilanciando la curiosità per il capitolo a venire.

Matteo Pernini – MCmagazine 69

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