Days

Tsai Ming-liang

Kang (Lee Kang-sheng) vive da solo in un grande appartamento, osserva dalla finestra gli alberi mossi dal vento e dalla pioggia e soffre di un male misterioso. Non (Anong Houngheuangsy) vive in una piccola abitazione, dove si prepara meticolosamente da mangiare, giorno dopo giorno. I due passeranno insieme qualche ora in una camera d’albergo, ponendo un freno temporaneo alle relative solitudini.


Rizi
Taiwan 2020 (127′)



T
sai Ming-liang ci avvisa fin dall’inizio: il film che state per vedere non è stato tradotto o sottotitolato. Le conversazioni a ogni modo sono ridotte all’osso e, chi conosce il cinema dell’autore nato in Malesia e naturalizzato taiwanese, di certo non si stupirà. Non è la prima volta che Tsai dirige un lungometraggio praticamente muto, fatto di silenzi e non di parole, con i soli sguardi dei personaggi che bastano a farci capire cosa provano. Col suo stile radicale, basato sulla staticità e su una gestione dei tempi di montaggio ben diversa da ciò che richiede il linguaggio cinematografico a cui siamo abituati, Tsai torna a firmare un lungometraggio sette anni dopo il potentissimo Stray Dogs, ma in mezzo ci sono stati cortometraggi e prodotti di varia natura (tra cui anche The Deserted, un lavoro in VR) pienamente nelle corde del regista asiatico. Anche in questo film ciò che interessa a Tsai è l’essere umano, le sue incertezze e le sue paure, con uno sguardo sempre empatico nei confronti dei suoi disperati personaggi: la cinepresa li segue con un occhio pieno di tenerezza nelle loro azioni quotidiane (insistite allo sfinimento, come il cinema dell’autore vuole). Li seguiamo con un montaggio alternato fino al tanto atteso incontro, erotico e delicatissimo al punto giusto, chiuso con un toccante omaggio musicale a Charlie Chaplin (guarda un po’, proprio colui che più di chiunque altro ha cercato di “prolungare” il cinema muto ben oltre l’inizio di quello parlato). Ed è davvero emozionante questo Days: se si sceglie di stare pazientemente al gioco del regista, il risultato è uno dei lavori più toccanti, strazianti e fin commoventi del cinema asiatico contemporaneo, capace di muovere corde emotive profonde soltanto attraverso lo sfiorarsi dei corpi, le lacrime che si apprestano a scendere sui volti ripresi in primo piano, il suono di un carillon o persino un edificio abbandonato, metafora perfetta delle esistenze che Tsai continua a raccontare. Semplicemente devastante la prova di Lee Kang-sheng, attore feticcio del regista e protagonista di una performance di grande intensità, ma gli tiene testa anche il sorprendente Anong Houngheuangsy.

longatake.it


N
egli ultimi anni, il cinema di Tsai Ming-liang si è evoluto verso l’essenzialità in una delle più eleganti ricerche di minimalismo del panorama contemporaneo. Pur rientrando pienamente in questa poetica, l’elegiaco e raffinato Days rappresenta una tappa significativa in quanto primo lungometraggio di finzione dall’epoca di Stray Dogs, che vinse il Gran Premio della giuria a Venezia nel 2013. Sia il concetto di lungometraggio che quello di “finzione” richiedono però parentesi infinite, visto che le immagini liquide di Tsai hanno allagato qualunque distinzione e prodotto gemme che nel solo ultimo decennio includono Journey to the West (sull’arte di camminare lentamente a Marsiglia), Afternoon (candido ritratto “casalingo” del regista e dell’inseparabile Lee Kang-Sheng), e perfino un’esplorazione del formato della realtà virtuale in The Deserted, che aggiungeva volume ai giochi spaziali e prospettici dell’autore. Tsai sembra essere giunto ai confini del cinema, aver fatto una breve pausa, e deciso di continuare verso l’ignoto. Days è formalmente in continuità con ciò che è venuto prima, forte delle sue lunghe inquadrature fisse, dei pochi dialoghi, e di quell’invito alla contemplazione che avvolge lo spettatore alterandone i circuiti nervosi. Contiene però nuove mutazioni, come l’avvertimento iniziale che assicura che il film è “intenzionalmente non sottotitolato”; può dunque liberarsi ufficialmente di un altro fardello e consegnare la manciata di battute che contiene alla dimensione del puro spettro sonoro…

Tommaso Tocci – mymovies.it


I
l tempo scorre sempre lento nel bellissimo cinema del regista malese Tsai Ming-liang, mentre i secondi diventano minuti, i minuti diventano ore e le ore diventano Giorni, come il titolo della pellicola di Ming-liang presentata al concorso di Berlino. Forse il lavoro più toccante di Tsai Ming-liang. Days, 127 minuti senza dialoghi, racconta un momento nelle vite di due uomini mentre queste si toccano, incrociano e poi separano di nuovo. Il nuovo film di Tsai Ming-Liang è uno studio magistralmente ridotto sulla solitudine. Una pellicola magica ed essenziale. Un uomo è seduto su una poltrona in pelle leggermente usurata. Si accovaccia su un balcone o sotto una pergola, guarda immobile fuori la pioggia, che tintinna sempre più forte. Ma in realtà sembra non guardare nulla. Un altro uomo, molto più giovane, accende il fuoco, ci mette sopra l’acqua, lava lattuga e verdure in ciotole di plastica sul pavimento piastrellato. L’ultimo film di Tsai Ming-liang, il suo primo lungometraggio dal 2013, racconta la vita di questi due uomini solitari, di cui poco si sa e si saprà: il cinese Kang (Lee Kang-sheng) ha dolori al sistema muscolo-scheletrico, e per alleviarli subisce un’agopuntura dolorosa per poi indossare un tutore per il collo. Mentre cammina per la città, preme forte la sua guancia, come per alleviare il dolore applicando una pressione. Non (Anong Houngheuangsy) è immerso in uno spazio ancora più grande di quello in cui si muove Kang. Lui vive a Bangkok, cucina da solo, fuma di notte in un mercato, dorme su un semplice materasso. I due si incontrano in una scena: Kang ha affittato una stanza d’albergo a Bangkok, Non gli fa un massaggio completo, i due fanno sesso. Poi vanno a fare uno spuntino insieme, poi si separeranno.

In Days i due attori condividono parti della loro vita reale: Anon Houngheuangsy lavora nella vita nel mercato visto nel film e Lee Kang-Sheng, l’attore principale in tutti i film di Tsai Ming-Liang, è davvero malato. Già in The River (1997) Tsai e Lee hanno fatto del dolore il tema del film. Questo dolore, ha detto Lee in conferenza stampa, è tornato qualche anno fa – e ancora una volta lo abbiamo messo in un film. È istruttivo capire il modo di lavorare di Tsai: semplicemente usa ciò che trova – e per questa fusione di realtà e finzione, non ha bisogno di un gigantesco progetto artistico di tre anni come Iljá Chrschanowski per i suoi film DAU, per lui è abbastanza la fiducia reciproca tra attori e regista. Tsai è un maestro della riduzione. E qui la rende in maniera particolarmente magistrale. Days non ha bisogno di dialoghi – e la maggior parte del pubblico internazionale non comprende in ogni caso le pochissime scene in cui viene pronunciata una parola..

Simone Porrovecchio – cimematografo.it

 

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