Wife of a Spy

Kyioshi Kurosawa

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone vive un periodo di forti tensioni interne. La propaganda si rafforza e con essa il controllo dei cittadini da parte delle forze dell’ordine, pronte a scorgere espressioni di dissenso persino nel più lieve dei cedimenti alla moda occidentale. Un uomo d’affari di Kobe, durante un viaggio in Manciura, scopre con orrore quel che va tramando l’esercito in quei luoghi e sceglie di denunciarlo alla comunità internazionale, trafugando segreti militari. Riuscire nel compito senza coinvolgere l’amata e patriottica moglie si rivelerà impresa assai complicata.

Spy no tsuma
Giappone 2020 (115′)
VENEZIA 77°: Leone d’argento alla regia

 VENEZIA – Bizzarra avventura per il venticinquesimo film del talentuoso Kyioshi Kurosawa, che, prodotto per la televisione giapponese e già trasmesso in patria, finisce in concorso alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia. Un’opera televisiva, eppure assai più cinematografica della maggior parte dei film della selezione ufficiale..


    Così come i limiti temporali – si veda il magnifico Seventh Code (2013), da molti considerato un elaborato scherzo di appena sessanta minuti (in realtà opera raffinatissima, che decostruisce i generi e disorienta, con studiate invenzioni, finanche lo spettatore più smaliziato) – non hanno in passato corrotto la ricchezza dell’ispirazione di Kurosawa, lo stesso dicasi, ora, per gli angusti confini del piccolo schermo, che si fanno, nella fantasia del maestro giapponese, opportunità per rinnovare la messa in scena di atmosfere claustrofobiche e di quegli interni cupi e decadenti, sui quali ha saputo costruire uno stile e una carriera.
Pur nella patinatura di una fotografia laccata e assai più uniformata di quanto non ci avesse abituato – e rifiutando, per esigenze del piccolo schermo, il ricorso agli abituali ed elegantissimi campi lunghi – Kurosawa, che filma quasi l’intera storia in campo medio, ha l’accortezza di situare i suoi personaggi lungo le diagonali dello spazio, innervando di una tensione sotterranea tutti i confronti tra i protagonisti.

A dispetto dei precedenti film del nostro, in Wife of a Spy l’orrore non è ricondotto a dimensioni fantasmatiche, né è frutto di invisibili perversioni dell’animo umano; assume, anzi, i contorni materiali di un filmato in Super8, che, accanto al filmino casalingo realizzato dal cinefilo protagonista e dalla sua sposa, ribadisce la dimensione meta-cinematografica di un’opera, che non teme di citare apertamente Kenji Mizoguchi e Sadao Yamanaka e fa del cinema il vero protagonista di questa storia di spionaggio che si lega, in modo assai tradizionale, al più tipico melodramma coniugale. Nell’operetta amatoriale del protagonista, un magazzino, una cassaforte e una donna con una maschera sul volto sono sufficienti a definire, per virtù di luci e inquadrature, un’atmosfera di eleganza e seduzione che richiama fatalmente alla memoria certi irresistibili feuilleton cinematografici degli anni Venti. Parallelamente a Kurosawa bastano pochi interni sapientemente arredati per fingere manicomi e stazioni della polizia, ricchi uffici, magazzini e navi da trasporto. La magia del cinema che si compie davanti ai nostri occhi.


A rigore potremmo lamentare un certo didascalismo, che allontana il film dai risultati più alti del regista – i cui apici vanno, probabilmente, ricercati in quei titoli che contribuirono alla fama del J-Horror in occidente, su tutti: Cure (1997) e Kairo (2001) – ma l’impianto visivo straordinariamente solido e il frequente richiamo alla passione cinefila fanno di Wife of a Spy un’opera assai fascinosa, meritato premio per la miglior regia in una Mostra un po’ sottotono.

Matteo Pernini – MCmagazine 60

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