Un documentario che analizza la figura del Presidente degli Stati Uniti e soprattutto della sua psiche. Insieme a psicologi, giornalisti, avvocati ed ex collaboratori di Trump, il regista cerca di rispondere alla domanda “Donald Trump è idoneo alla presidenza?” Ne esce un ritratto scioccante, quello di un uomo che sembra rappresentare una vera e propria minaccia per il mondo intero. Un monito, uno amaro spunto di riflessione per una partecipazione più consapevole della politica internazionale.
The Psychology of Donald J. Trump
USA 2020 (83′)
A poche ore dalla sua elezione a Presidente degli Stati Uniti, nel 2016, Donald John Trump fa sapere alla stampa tramite il suo portavoce di essere insoddisfatto della copertura mediatica dell’evento, a suo parere distorta perché avrebbe evidenziato una partecipazione minore di cittadini rispetto all’insediamento di Obama. È il primo atto di una strategia di comunicazione aggressiva e compulsiva, fatta di toni autoritari, mimica mussoliniana e linguaggio rozzo e semplificato, dal vivo e sui social, che respinge le ricostruzioni e le tesi diverse dalle proprie come “fake news” e che per tutta la sua presidenza occuperà i media e preoccuperà i democratici di ogni latitudine.
All’approssimarsi delle elezioni di novembre 2020, il regista e produttore Dan Partland interpella diversi psichiatri, psicologi, storici e comunicatori politici per individuare e contestualizzare i motivi che rendono il quarantacinquesimo presidente americano inadatto (“unfit”) al proprio ruolo istituzionale. In maniera clamorosa ma soprattutto pericolosa per la nazione, quindi per il pianeta. Due volte premiato ai Primetime Emmy Awards (per la serie documentaria American High e il reality show Intervention), Partland incardina il suo lavoro monografico quasi totalmente su interviste ad un mosaico di esperti. In particolare, in quanto fondatore dell’associazione Duty to Warn (“dovere di allarme”) istituita nel 2017 da psichiatri e privati cittadini, parla lo psicologo e psicoterapeuta John Gartner, che attribuisce a Donald Trump la sindrome di “narcisismo maligno”. Identificata a metà anni ’60 da Erich Fromm, tale patologia è descritta come una somma di narcisismo, paranoia, disturbo antisociale di personalità e sadismo. Il punto di partenza ovviamente non può essere il colloquio psichiatrico a tu per tu ma l’osservazione a distanza, facilitata dalla proliferazione di azioni e affermazioni della più alta carica dello Stato. A quasi ogni diagnosi o definizione corrisponde la prova visiva o scritta dei comportamenti pubblici, vale a dire il sintomo.Intervengono, tra gli altri, l’analista politico Billy Kristol, l’avvocato George Conway, marito della consigliera di Trump Kelly Conway, e l’avvocato Richard Painter, candidato indipendente ed ex consigliere etico sotto l’amministrazione di George W. Bush. Gartner e colleghi sostengono l’irreversibilità e l’estrema rischiosità del disturbo mentale del presidente, definito dallo psicanalista e saggista Justin Frank “sociopatico, sadico, truffatore, razzista, misogino”. Ma anche un mentitore seriale, un cronico trasgressore di norme e un individuo totalmente privo di empatia.
Lo dimostrano le aperte violazioni dei diritti umani, come la politica di separazione di minori e genitori in seguito all’edificazione della barriera tra Messico e California ma anche la serie sbalorditiva di licenziamenti o allontanamenti di collaboratori (consulenti alla comunicazione, inquirenti, chiunque sostenga una narrazione dei fatti a lui sgradita). Per non parlare delle infrazioni fiscali e dei comportamenti misogini sui quali il film, volendo mantenere il focus sulla disfunzione mentale, si sofferma intenzionalmente poco, pur citando in corsa le chiassose interviste con Howard Stern.
Un corredo caratteriale, insomma, le cui origini risalirebbero al confronto con il negativo esempio paterno e che colloca Trump, già a partire dalla campagna elettorale, drasticamente fuori dal controllo del sistema democratico. Cioè all’esatto opposto del “abbiamo tutto completamente sotto controllo”, affermazione del 22 gennaio con cui “The Donald”, allo scoppio della pandemia, rassicurava gli americani (Totally Under Control è anche il titolo del recentissimo documentario di Alex Gibney sull’inefficiente gestione dell’emergenza sanitaria).
Le inoppugnabili motivazioni per sollevarlo dai suoi incarichi, se pur tardive, più che scongiurare una conferma alle urne, potrebbero fornire, in caso di rielezione, il fondamento teorico a supporto della richiesta di appello al venticinquesimo emendamento formulata dalla leader democratica Nancy Pelosi per rimuovere il presidente (“per evidente incapacità fisica o mentale”), per evitare la trasgressione dei principi costituzionali.
Anche Fahrenheit 9/11 di Michael Moore si apriva con l’annuncio dell’insediamento alla Casa Bianca; ma rispetto a quel durissimo pamphlet contro la presidenza di George W. Bush, da Unfit scaturiscono anche alcune penetranti valutazioni da addetti ai lavori: sul periclitante stato della democrazia a livello globale, la deriva autoritaria, il rischio di conflitto nucleare faticosamente evitato dagli accordi INF del 1987. In sostanza, la necessità di ripristinare la partecipazione civica anche attraverso l’analisi e la comprensione della psicologia del potere e del suo linguaggio.
Se la storica Ruth Ben-Ghiat traccia alcune analogie tra l’ascesa politica di Trump e quella di Mussolini e Hitler (anche se in Italia ai tempi del delitto Matteotti il suffragio universale non era ancora in vigore) e la collega Cheryl Koos riporta la “tecnica di menzogna” a una matrice nazista, Gartner legge il disegno politico di Trump attraverso i comportamenti degli scimpanzé studiati da Jane Goodall.
E ancora, in tema di polarizzazione, l’ex direttore della comunicazione della Casa Bianca Anthony Scaramucci (anche lui “silurato” dopo 11 giorni), citando lo spin doctor di Obama David Axelrod, dà una lettura articolata delle motivazioni psicologiche dei sostenitori di Trump, che “non vogliono votare per qualcuno che li disprezzi”. Il riferimento implicito è al “basket of deplorables”, (“manica di deplorevoli”) del discorso preelettorale di Hillary Clinton del 2016, errore comunicativo fatale alla candidata. Visione appassionata, densa di stimoli di riflessione e rimandi alla connessione tra psicologia e politica, appello a uno sforzo di intelligenza dei meccanismi di comunicazione, per una partecipazione meno istintiva e più consapevole.
Raffaella Giancristoforo – mymovies.it