Le sorelle Macaluso old

Emma Dante

Maria, Pinuccia, Lia, Katia e Antonella sono cinque sorelle di diversa età, nate a Palermo e cresciute in un appartamento, sito all’ultimo piano di un palazzo decadente della città sicula. Così come la loro casa mostra i segni dello trascorrere del tempo e degli anni, allo stesso modo le cinque donne hanno ognuna una storia da raccontare, dall’infanzia alla vecchiaia: semplici le vicende familiari dietro le quali c’è la scelta – sempre difficile da prendere – di restare e combattere o andare via per sempre. L’opera di Emma Dante funziona come una madeleine proustiana perché certe case ci abitano dentro, diventano un non luogo, il deposito dei ricordi della nostra vita.

Italia 2020 (94′)
VENEZIA 77°: Premio Francesco Pasinetti SNGCI /  Premio Lizzani ANAC

 

Si

Nel cinema di Emma Dante – ma sarebbe più corretto dire: nella sua concezione della messa in scena, inglobando, così, anche il lavoro teatrale – lo spazio è un valore essenziale. Lo era, sette anni fa, in Via Castellana Bandiera, storia di due donne che, incrociate le automobili nell’omonima strada palermitana, non cedono l’una il passo all’altra e si intestardiscono in un conflitto tanto assurdo quanto esiziale; lo è oggi ne Le sorelle Macaluso, storia, prima ancora che di una famiglia, di una casa, una palazzina periferica in cui vivono le cinque protagoniste del titolo e che sembra uscita da un racconto di Tommaso Landolfi, colma com’è di un’oggettistica tradizionale, che va sfiorendo col trascorrere degli anni.
Così come va inesorabilmente sfiorendo l’ardore giovanile delle sorelle, che scopriamo, in incipit, intente a praticare un foro nella parete. Dove si trovino, non lo sappiamo. È buio all’intorno, finché una lama di luce comincia a filtrare dal bucherello e i loro occhi vi si avvicinano a scrutare un altrove imprecisato. La scena è di grande forza e, più in generale, tutta la prima parte – il primo atto, diremo – de Le sorelle Macaluso compone un affresco di gioventù, in cui gioie personali, piccole invidie, sinceri affetti si confondono a tessere l’ordito di una genuina trama familiare. Colte durante i preparativi mattinieri per una gita al mare, le fanciulle liberano sul grande schermo tutta la loro vitalità – in specie Maria, presenza sin dal principio dolcemente malinconica, che sogna di diventare danzatrice e nello spazio di un cinema all’aperto inscena una coreografia di seduzione che è tra i momenti più riusciti del film –, ignare del trauma che di lì a poco verrà a segnare per sempre le loro esistenze. Ritrovate in età adulta, sempre ospiti della stessa dimora, scruteremo sui loro corpi e volti i segni che il tempo e il dolore e la perdita vi hanno scavato.
In questo progredire inquieto di esistenze troppo fragili, la casa funge da centro attrattivo, al punto che le protagoniste si direbbero incapaci di sfuggire, per un motivo o per l’altro, alla sua gravità. I gesti si ripetono e il passato si sovrappone al presente: la chiave è sempre nella serratura interna, costringendo chi voglia entrare a suonare il campanello, in mansarda si ammassano i residui dei volatili, la maniglia della finestra è sempre instabile.
In Via Castellana Bandiera – film originato da un precedente romanzo della stessa regista, così come questa opera è la traduzione in immagini di una sua pièce teatrale – la dimensione cinematografica era superficialmente evocata da sparuti richiami al genere western, ma si codificava in specie nel ricorso a inquadrature strette sui dettagli, oggetti, corpi, brevi espressioni colte come di sfuggita e capaci di disegnare vasti mondi personali oltre l’esilità del pretesto narrativo. Rinunciando alla sua predilezione per il totale, l’insieme, il gruppo sul palcoscenico, Emma Dante dava prova di uno sguardo già maturo e capace di integrare il suo universo marcatamente teatrale con le opportunità offerte da un diverso linguaggio qual è quello del cinema. A mancare, ne Le sorelle Macaluso, è per l’appunto una traduzione altrettanto spontanea e genuina del testo. A partire dalla scansione in tre atti, le convenzioni del palcoscenico emergono a più riprese senza riuscire a integrarsi appieno con il lavoro, comunque sapiente e articolato, sull’immagine – si veda l’insistere dello sguardo sugli oggetti della dimora, inquadrati sotto il medesimo angolo a ribadire l’ossessiva stasi indotta dall’abitazione in quel grumo di vite incapaci di districarsi dai legacci del passato. E quando Maria, sciupata dai ricordi e dalla malattia, irrompe silenziosa nel salotto ove si va consumando una consueta diatriba tra sorelle, vestita col tutù di quand’era giovane, e, svelato il suo male, inizia a divorare un cabaret di paste, non possiamo non immaginarla emergere dal buio di una quinta e avanzare solitaria sul palcoscenico, mentre una luce si fissa di lei.

Paolo Mereghetti – corriere.it

Nate e cresciute in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina nella periferia di Palermo, vivono da sole, senza genitori. Da spettatori le seguiamo nelle tre stagioni della vita: infanzia, età adulta e vecchiaia.
Tratto dallʼomonima pièce teatrale di Emma Dante, già Premio UBU Miglior Regia e Miglior Spettacolo, Le sorelle Mancuso vanta un cast al femminile davvero variegato perché, a interpretare le cinque protagoniste, si avvicendano ben dodici attrici. L’idea è rappresentare il modo in cui il tempo ci cambia, rendendoci persone fisicamente diverse ma che continuano ad assomigliare a se stesse nel tessuto psicologico.
Non ci sono veri colpi di scena, se non quelli orchestrati dall’esistenza, come amori, lutti e malattie. Alcuni elementi sembrano inseriti un po’ forzatamente, come i baci tra due ragazzine, il rimestare nelle frattaglie animali, l’assunzione malsana di cibo. Quest’ultima si capisce che simboleggi l’atto triste e disperato di arginare un vuoto e appropriarsi di tutti i piaceri per cui non ci sarà più tempo, ma bastava la scena del piatto rotto e riparato con cura certosina a mostrare lo stato d’animo di chi non può più aggiustare la propria vita.


La casa è un personaggio tanto quanto le sorelle e invecchia con loro. Viva come può esserlo una placenta, ha uno spazio deputato a colombaia (le Macaluso affittano colombi per matrimoni e battesimi). Il valore simbolico di questi animali è cristallino: tornano sempre a casa, così come fanno gli umani, con la mente e col cuore, nei luoghi che li hanno visti un tutt’uno con le persone care. (…) Esistono oggetti, cassetti, abitazioni che sono l’accesso a una costellazione di ricordi. La nostra memoria è spesso racchiusa nel più insignificante dei dettagli. Tutto è destinato a restare, anche se non fisicamente, e alcuni luoghi ad abitarci più a lungo di quanto facciamo noi con loro.

Serena Nannelli – ilgiornale.it


L
’ultimo film in Concorso, Le sorelle Macaluso, fatica a lasciare un ricordo resistente, articolato com’è nel catalogare la vita di cinque sorelle, dall’infanzia alla vecchiaia, in tre fasi distinte, che comprendono anche l’età adulta. Diciamo subito che l’opera seconda della regista palermitana (il suo esordio avvenne proprio qui al Lido con Via Castellana Bandiera, nel 2013) non ha quell’idea narrativa che fu allora vincente, trasformando un banale problema con l’auto in una lettura attenta e profonda di disagio sociale. Anche qui, in un film comunque tratto da una pièce teatrale della stessa regista, si attinge a una coralità di personaggi, ma il respiro si fa più corto, non solo perché si resta all’interno di un unico gruppo familiare, ma soprattutto per le dinamiche piuttosto scontate, anche nelle declinazioni del destino, che vengono scandite puntuali, dalla scoperta del sesso alle malattie o alle tragedie. Così tutto sembra obsoleto, anche una regia che si sforza attraverso sterzate continue di superare la declinazione teatrale, un po’ come la casa di famiglia, che alla fine viene denudata dell’arredamento, denunciando un ambiente che mostra il peso del tempo. E purtroppo quello che sembra poco, diventa addirittura troppo: dalle liti che con l’età si intensificano alla nostalgia che prende il posto della speranza, dai cassetti che si aprono e che contengono i ricordi della fanciullezza fino agli invadenti piccioni, allevati da sempre in casa, che alla prima apparizione sono un felice stacco di montaggio e poi diventano però una metafora insistita…

Adriano De Grandis – Il Gazzettino

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