Accusata di aver rapito e ucciso un bambino, Geum-ja Lee esce di prigione dopo tredici anni e mezzo di detenzione. Il desiderio di vendetta verso il vero assassino, il suo amante Mr. Baek, diventerà il suo unico scopo di vita. Park tratteggia qui la sua ultima parabola morale, un percorso che attraversa tutte le fasi che conducono dal peccato al riscatto. Una storia violenta e disturbante per un film memorabile: tragico e sentimentale, poetico e a tratti fanciullesco, ironicamente crudele.
Sympathy For Lady Vengeance / Chinjeolhan geumjassi
Corea del Sud 2005 (112′)
VENEZIA 62° – Concorso
– Chiusura della Trilogia della Vendetta e sintesi dell’estetismo nel cinema di Park, Lady Vendetta raggela i furiosi istinti dei precedenti Olboy e Mr Vendetta, virando al femminile la ricognizione operata dal regista intorno alla più atavica delle pulsioni umane. Lo sguardo di Geum-ja che, uscita dal carcere dopo tredici anni di ingiusta detenzione, si fissa in camera e ne oltrepassa l’obiettivo per congiungersi col nostro e intrappolarci all’istante nella rete di un principio morale che scopriremo essere assoluto, declina sin da subito le modalità di una rivalsa che muove da un calcolato schema.
Come nel più celebre dei romanzi di Agatha Christie – ma senza l’incombenza di una sciarada di cui venire a capo – la vendetta eccede la pulsione del singolo e si fa rituale collettivo, momento in cui l’individuo partecipa di una catarsi, sgravandosi nel mentre del peso sovrabbondante di una giustizia che da solo non potrebbe reggere.L’ambizione di Park è dichiarata: fare delle vicissitudini del singolo e del suo rapporto con la società la sineddoche di un più vasto discorso sulla sopraffazione – sia essa di natura politica, sociale o erotica – come pratica fondante le relazioni tra esseri umani (e, si sarebbe tentati di dire, con tutto l’esistente). Da ciò l’esibizione di una violenza talvolta percepita come eccedente, ma, a ben vedere, necessaria all’assunto e che, come in una edulcorata fantasia del geniale Takashi Miike, colora il candore della pelle con oscene tonalità vermiglie. A differenza, però, dei capitoli precedenti, Lady Vendetta si distingue per un uso assai più parco e calibrato degli strumenti di dolore e di morte. L’iconico martello brandito dal protagonista di Oldboy (e che ritornerà in The Chaser, folgorante esordio di Na Hong-jin) è qui sostituito da coltelli, asce e forbici, che operano fuori quadro, mentre la macchina da presa danza al ritmo di una misericordiosa danse macabre, che insegue il gesto, ma esclude l’atto, lasciandoci, infine, con una anonima pozza di sangue da riversare in un secchio. Con feroce eleganza, Park Chan-wook ci accompagna lungo un cammino di espiazione che procede col rigore e la necessità di un teorema, obbedendo a regole che sono altre rispetto a quelle della verosimiglianza. E se gli crediamo, se accettiamo di seguirlo in questo imprudente tragitto è per la ricchezza del suo sguardo sul mondo, per la forza debordante di quelle immagini barocche in cui l’odio si trasfigura in un incubo pulp come forma estrema e ineludibile di redenzione.
VENEZIA – Il rosso e il bianco sono i colori dominanti di Sympathy For Lady Vengeance, il film di Park Chan Wook che conclude la trilogia della vendetta dopo Sympathy for Mr. Vengeance e Old Boy. Sul bellissimo manifesto del film, che riproduce la grafica dei santini, la protagonista Lee Young-ae, in posa ieratica da madonna piangente, spicca col bianco del volto, delle mani e dell’abito, circondata da un’aureola fosforescente, su uno sfondo rosso sangue. Rosso è l’inchiostro da tatuaggi che cola su una pelle bianchissima durante lo scorrere dei titoli di testa. Bianco come purezza e redenzione, rosso come violenza e vendetta. Bianco è il panetto di tofu che alcuni devoti offrono alla protagonista all’uscita dal carcere, per consacrare la recuperata purezza, e che viene però bruscamente rifiutato dalla stessa nella sequenza di apertura del film. Molto sangue dovrà essere versato per arrivare a questo rito di purificazione simbolica e infatti l’eroina abbandona delusi i suoi sostenitori e si avvia sulla strada della vendetta.Ingiustamente accusata di un delitto infamante, l’infanticidio, la bella Geum-ja, esce dopo tredici anni di prigione, dove per la condotta quasi da santa si è guadagnata il soprannome di Geum-ja “cuore gentile”, e si mette alla ricerca del vero responsabile di quell’omicidio e anche di quelli di altri bambini. Aiutata nella sua caccia da alcune ex compagne di carcere, Geum-ja si trasforma da vittima a carnefice e coinvolge i genitori dei bambini uccisi in un rito collettivo di vendetta alla Durrenmatt. Solo dopo aver eliminato il rosso del tanto sangue versato, potrà offrire, non a se stessa, ma alla figlia il tofu bianco. La duplice vendetta è compiuta: quella personale, per aver dovuto scontare il carcere per un delitto non commesso e quella sociale per vendicare i bambini uccisi dal pedofilo.
Lo schema narrativo del film è simile a quello dei due film precedenti: rapimento – prigionia – vendetta personale ed efferatissima, il ritmo è coinvolgente e la fotografia bellissima, ma la “dolce” Geum-ja, spietato angelo vendicatore, non riesce ad avere il fascino malinconico e crepuscolare di Old Boy, così come non sa trasmettere ai cinefili la passione coinvolgente di un’altra grande eroina della vendetta: la Jeanne Moreau del bellissimo La sposa in nero di Truffaut (dal romanzo di Woolrich!) e nel complesso il film appare meno compatto e rigoroso dei precedenti, forse perché il finale di speranza incarnato dalla figlia appare troppo in contrasto con il mondo spietato e violento che la trilogia rappresenta. Ma il regista ha affermato: “Questo è il capitolo conclusivo della trilogia, non volevo concluderlo in maniera troppo violenta e gravida di odio. Vi sorprenderà…”
Cristina Menegolli – mcmagazine 14
altre voci…
La vendetta, da non confondere con la giustizia biblica del taglione, nasce dunque dal peccato e ne rappresenta l’intima natura perché prima di rivolgersi contro l’uomo si indirizza contro Dio. Memore dei suoi studi non solo di teologia, ma anche di arte e di letteratura, in Lady Vendetta Park Chan-wook rievoca i toni e i timbri della tragedia classica. Ma se nella tragedia greca il Fato incombe sulla fragilità della natura umana fino a sovrastarla e ad annullarla, in Lady Vendetta il peccato originale può essere rimosso grazie alla redenzione. Si veda la scena finale della purificazione, che riveste le forme della simbologia eucaristica con le bocche aperte a ricevere i candidi fiocchi di neve, emblematica allegoria della comunione. Park Chan-wook ha alle spalle un “background” non indifferente e lo si nota non soltanto da una regia dotata di polso sicuro, ma anche dal modo in cui questa sa tenere in pugno un racconto asincronico e atemporale, basato su continui salti cronologici, costruito a frammenti, come un puzzle di cui soltanto alla fine si ha la visione totale.
Enzo Natta – cinematografo.it
…Cinema allucinato, sadico, decostruito, ricercato. Con Lady Vendetta Park Chan-wook conclude la sua trilogia sulla giustizia, un tema che oggi come sempre può benissimo interpretarsi come tragedia pulp. Sul leitmotiv alla Conte di Montecristo il regista coreano innesta le note personalissime di uno stile che fonde l’ironia con l’efferatezza, il realismo con il delirio, il raziocinio filosofico con l’aggressività ferina, spingendoci senza remore in un vortice spiazzante e travolgente che si frammenta nei dettagli più esplosivi e si ricompone in una riflessione equanime e disillusa sulle (scarse) possibilità dell’uomo di reggere alla sfida degli angeli e dei demoni che coesistono nella sua essenza. (,,,) Nel climax del film – punteggiato d’immagini brutali nella loro poesia e viceversa – la protagonista s’immerge sino allo spasimo nell’oscurità psicologica e nella tortura fisica che l’istinto primordiale pretende come inevitabile risarcimento.
Lo stile di Park Chan-wook non ha, forse, eguali nel panorama contemporaneo e persino gli incubi tarantiniani impallidiscono di fronte alla sua maniera fredda e asciutta di dettagliare il veleno interiore dei personaggi distillandone goccia a goccia la tensione spiritualista: Lady Vendetta riesce a rendere la rabbia dolce, l’odio elegante, la violenza delicata. Il principio della redenzione, applicato a una catena di misfatti che colpisce e scandalizza in senso evangelico lo spettatore, diventa, così, la logica stessa del film, il collante della sua struttura arcana e complessa.
Valerio Caprara – Il Mattino