Un quartiere della provincia di Roma. Le storie di famiglie ormai disilluse e frustrate si intrecciano in una calda estate; i bambini osservano il comportamento dei genitori e si caricano di una tensione pronta a esplodere da un momento all’altro. La cartolina grottesca di una parte d’Italia sfatta e tenebrosa, in cui la regia, con trovate puntuali, si incolla agli sguardi dei personaggi in una sorta di sfilata di volti e sensazioni di rara forza filmica.
Italia 2020 (98′)
BERLINO 70°: Orso d’argento – miglior sveneggiattura
BERLINO – Dopo l’exploit del 2018 con La terra dell’abbastanza, film rivelazione della sezione Panorama e poi premiato in Italia con un Nastro d’argento per la migliore regia esordiente, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, gemelli romani classe 1988, tornano a Berlino, questa volta in concorso, con Favolacce (Bad tales), dimostrando un cambio di passo e una maturazione straordinarie.
Se infatti La terra dell’abbastanza si inseriva, con un tono senz’altro originale, in quel filone di Romanzo criminale o Gomorra, in quel noir di periferia che tanto successo ha avuto in anni recenti, Favolacce è qualcosa di completamente diverso, un affresco fantasioso e dolente di un ambiente umano degradato e senza speranza. Evidenti le assonanze con Matteo Garrone, di cui i fratelli sono stati co-sceneggiatori per Dogman.
Siamo in un luogo imprecisato, da qualche parte tra Roma e il mare (forse Spinaceto o Casalpalocco di cui essi stessi sono originari) in un tempo anch’esso indefinito. È una terra di mezzo, una periferia senza palazzoni né degrado, più vicina alle ambientazioni di Malick che a quelle di un Pasolini. Le famiglie dei protagonisti vivono in linde villette a schiera, non sono né ricchi né poveri (piccola borghesia benestante, si sarebbe detto una volta); si scambiano visite, organizzano grigliate in giardino, sono vicini ma non amici. Luogo simbolico di aggregazione, una enorme piscina gonfiabile.
Tra gli adulti, soprattutto i maschi (le mogli sono sempre in secondo piano, assenti e annoiate) solo chiacchiere insulse, risate psicotiche, continui riferimenti al cibo, uscite sguaiate al limite del pornografico. Le partite, la tv sempre accesa, il commento a fatti di cronaca nera (”a noi questo non potrebbe succedere”). Logicamente, non si vede un libro né un giornale … C’è Bruno (Elio Germano), disoccupato col Suv, sposato a Viola (Barbara Chicchiarelli), due figli preadolescenti, Alessia e Dennis, apparentemente perfetti, bravi a scuola, a cui durante una cena impone di leggere ad alta voce le pagelle. Salvo poi abbandonarsi a scoppi d’ira incontrollati. C’è Pietro, il cugino cameriere che odia il suo lavoro; degli altri poco si sa. C’è, ed è il meno peggio, Amelio, che lascia guidare il pick-up al figlio dodicenne Geremia e continua a ripetergli “Tu sei come me!”.
Sono brutte persone, nel senso di abbruttite, frustrate, coscienti di non aver concluso nulla nella vita e che di conseguenza ripongono tutte le loro speranze nei figli. I quali invece guardano, osservano, sembrano vivere in un limbo. In preda ad una silente disperazione, non riescono a percorrere le tappe naturali della loro età: l’iniziazione al sesso, di cui tanto si parla in casa, l’amicizia, un andare a scuola che sia gioia e non solo un mezzo per farsi amare e premiare dai genitori. Intrappolati tra la rabbia preadolescenziale e la mancanza di figure guida, finiranno per pensare a (metaforiche?) bombe e veleni… Forse consapevoli di essere destinati a diventare come loro.
Ed è questo alla fine il messaggio importante del film: una o più generazioni senza cultura né ideali daranno il la ad altre simili. Ci vorrebbe un voce, un modello (oratorio, chiesa, partito) da fuori, ma sappiamo che non c’è. La scuola fa quello che può, dopo per loro c’è solo il ritorno nel nulla culturale e morale della famiglia.
Dal punto di vista formale, Favolacce, premiato con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura, è un caso tutto speciale nel senso che una sceneggiatura vera e propria (intesa come una storia, una sequenza logica e correlata di eventi che da un punto A arrivano a un punto B) praticamente non c’è. Il film, complice un montaggio sincopato e una fotografia sfumata in apparizioni di luci e acque, è un pastiche apparentemente squilibrato di scene, volti deformati e grotteschi in primo piano, dialoghi e situazioni solo accostate, giustapposte, che spesso si dilatano nel sogno, nell’irreale, quasi nell’astratto. È un film (“impressionistico”?) dove le varie macchie di colore si compenetrano su un fondo esistenziale plumbeo. Ma è proprio questo il suo fascino, la sua promessa di essere una tappa importante nel cammino di due artisti da cui tanto possiamo aspettarci in futuro.
Giovanni Martini – MCmagazine 57
[vc_row_inner][vc_column_inner width=”1/3″][/vc_column_inner][vc_column_inner width=”1/3″][vc_btn title=”video di presentazione” style=”outline” shape=”round” color=”inverse” link=”url:https%3A%2F%2Fvimeo.com%2F424080188|||”][/vc_column_inner][vc_column_inner width=”1/3″][/vc_column_inner][/vc_row_inner]