Guido, un regista cinematografico nel pieno dei quarant’anni crisi esistenziale e creativa trascorre un periodo di riposo in una stazione termale. La pausa forzata si risolve in una specie di bilancio generale della sua esistenza: un bilancio fatto di rapporti con personaggi reali, e di fantasticherie che si inseriscono all’improvviso negli avvenimenti concreti delle sue giornate e delle sue notti. Una seduta psico-cinematografica, un autobiografico esame di coscienza, un flusso di emozioni, affetti, ricordi, sogni per un capolavoro senza tempo.
Italia 1963 (138′)
2 OSCAR: costumi/miglior film straniero
7 Nastri d’argento
Otto e mezzo colloca il regista al massimo livello degli autori visionari del cinema, a fianco di Orson Welles e Buñuel, Kurosawa e Bergman: Fellini vi definisce e raggiunge una struttura ideale, organizza i vari piani in un perfetto equilibrio interno, li scompone fino a portarli in condizioni di caos e li riordina con mezzi quasi taumaturgici. Il bianco e nero si distende in vaste campiture, diviene una specie di supercromatismo. I moduli, le cifre, i simboli, le scelte iconografiche e iconologiche, sono fissati al livello di più intensa rappresentatività e capacità significante. Il film è un viaggio nel corpo, un contatto ravvicinato con la materialità delle sensazioni, dei piaceri, delle emozioni tattili, visive, sonore e del gusto.
Gian Piero Brunetta – Cent’anni di cinema italiano
Il segreto, dite pure il trucco, sta nell’aver portato all’estremo quella disponibilità inventiva e quella maestria tecnica grazie alle quali anche immagini sparse prendono corpo e divengono frasi di un discorso che perennemente si arrotola e si snoda sul piano della fantasia, della memoria e del sortilegio, e nell’averle nutrite di tutte le angosce del nostro tempo. Quante volte è stato detto che Fellini è soprattutto un visionario? Ma ormai le sue visioni sono un grido. Ormai egli proietta tutti i suoi dubbi morali su uno schermo magico, che assorbe la confessione nella visione, senza il consueto tramite della introspezione, ma il lampo gli parte dal profondo dell’essere.
Giovanni Grazzini – Corriere della sera
Fellini, non si è mai abbandonato alle geometriche e un po’ astratte divagazioni di Resnais in Marienbad, né a quel crepuscolarismo onirico così caro a certo Espressionismo tedesco, ma si è, al contrario, tenuto volutamente nell’ambito di una narrazione in cui tutto scaturisce «naturalmente» di fronte allo spettatore con una chiarezza non inficiata nemmeno dalla preziosa ridondanza dell’immagine e dalla corrusca varietà dei particolari secondari. Ha posto il protagonista al centro della azione, ha precisato il suo stato d’animo, ha chiarito passo passo la sua evoluzione, e i modi di questa evoluzione, e ha chiesto quindi allo spettatore non di decifrare un enigma, ma di abbandonarsi alle sensazioni emotive, liriche, drammatiche che lo spettacolo ad ogni istante doviziosamente gli suggerisce, rifiutando recisamente il filosofema pirandelliano (dopo i |Sei personaggi in cerca d’autore |era facile giocherellare con un «Autore in cerca dei suoi personaggi») e chiedendo solo alla poesia più dolce, più umana, più schietta di far sentire, udibile e comprensibile da tutti, la sua limpidissima voce. Con uno stile che, solo paragonabile per certo suo lirismo ai momenti più compiuti de La Strada, supera di gran lunga La dolce vita per maturità espressiva, per ricchezza visiva, per corposità di ritmo, per sapienza linguistica e tecnica..
Gian Luigi Rondi – Il Tempo