1973. L’Uruguay è sotto il controllo di una dittatura militare. Una notte di autunno, tre prigionieri Tupamaro vengono portati via dalle loro celle nell’ambito di un’operazione militare segreta. L’ordine è chiaro: “Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia.” I tre uomini resteranno in isolamento per 12 anni. Tra di loro c’è anche Pepe Mujica, futuro Presidente dell’Uruguay. Un film tradizionalmente militante che si concentra quasi esclusivamente sulla prigionia, ma che sa chiamare a raccolta passioni ed emozioni, sentimentali, civili e morali. Il canto melodioso di Silvia Pérez regala nel finale una magnifica The Sound of Silence.
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La noche de 12 años
Spa/Arg/Urug/Fra 2018 1h 3′
…Esempio riuscito di cinema civile (…) che racconta uno dei momenti drammatici vissuti fino agli anni ’80 del secolo scorso da un Paese del Sud America. Stavolta è l’Uruguay del 1973, anno del golpe militare – il 27 giugno – dopo decenni di democrazia e benessere (al punto da essere definito «la Svizzera del Sudamerica»), interrotti però da una forte crisi economica che causò anche l’espansione della formazione di estrema sinistra dei Tupamaros. Composto da un miscuglio di tendenze ideologiche, il movimento Tupamaros – nato nel 1963 – era animato da un comune ideale socialista e dalla convinzione che la lotta armata fosse l’unica strada, in contrapposizione agli sterili dibattiti di quanti confidavano in una svolta. Ma non è tanto sul fenomeno guerrigliero che si concentra il film (…) quanto sulla dimensione shakespeariana di un «ostaggio» (così definito dagli stessi militari) in mano a una dittatura sanguinaria. «Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», scriveva il ‘Bardo’ e la frase viene ricordata oggi dal regista Alvaro Brechner. Per questo la pellicola descrive i sogni dei 3 personaggi: José “Pepe” Mujica, autore di una vita incredibile che l’ha visto passare dalla pazzia – sfiorata appunto in prigione – alla presidenza del Paese nel 2009, Eleuterio Fernandez Huidobro, poi ministro, e il letterato Mauricio Rosencof. Un film simile rischiava di restare anch’esso prigioniero, della staticità e dei confini imposti dal soggetto. Un pericolo evitato dal 42enne autore di Montevideo, a parte alcune scene più oniriche, grazie alla sapienza nel descrivere l’unica cosa che ogni dittatore non può rinchiudere: la fantasia. (…) E felice è la mano nel raccontare una dittatura mettendone in luce gli aspetti più ridicoli, come la goffaggine di un soldato innamorato che si riscopre umano ricorrendo al colto Rosencof per scrivere una lettera o la scena in cui Huidobro non può defecare perché limitato dalle manette e con ciò provoca un consulto di militari davanti al bagno, visto che nessuno riesce a disobbedire a un semplice ordine. Perché il lato ottuso e grottesco c’è in ogni regime, a qualunque latitudine e in qualunque secolo.
Eugenio Fatigante – Avvenire
Il regista Alvaro Brechner rievoca quei dodici anni di orrore attraverso tre personaggi che in seguito avrebbero avuto importante peso nella vita pubblica del Paese, a partire dal futuro presidente Pepe Mujica, ma lasciando vaghe le motivazioni politiche (per perseguire i loro ideali i tupamaro ricorsero anche ad azioni armate); e focalizzando l’attenzione sulla follia di una violenza fine a se stessa; e sull’umana capacità di sopravvivere in condizioni disumane. Girato con professionalità e nobile negli intenti, il film avrebbe tuttavia richiesto altro piglio per avere la concentrata forza drammatica e formale di analoghi kammerspiel, poniamo Hunger di Steve McQueen.
Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa