Thailandia 2018 – (95′)
UDINE – Nel 2016 è stato presentato al Far East il film hongkonghese Ten Years, un’antologia che proponeva cinque visioni cupe e sorprendenti del futuro della città. Un film censuratissimo in Cina, ma che vinse in quell’anno come miglior film all’Hong Kong Film Awards. Proprio da Udine è partita l’iniziativa di estendere il progetto ad altri paesi asiatici, invitati a interrogarsi sulle supposte “libertà” delle varie democrazie dell’area geografica, da Taiwan al Giappone in una prospettiva futura. Tre di questi lavori sono stati presentati quest’anno al Far East : Ten Years Thailand, Ten Years Taiwan e Ten Years Japan.
Indubbiamente il più significativo è il film thailandese, presentato, non a caso, anche al Festival di Cannes, vuoi perchè la realtà politica della Thailandia è sicuramente la più problematica, vuoi perchè ha puntato su autori importanti della cinematografia thailandese, che si sono posti il problema di guardare al futuro anche dal punto di vista del linguaggio. Aditha Assarat ha vinto premi in mezzo mondo sia con Wonderful Town che con Hi-So, Wisit Sasanatieng è uno dei numi tutelari della new wave thai, Chulayarnnon Siriphol è un videoartista apprezzato a livello mondiale e Apichatpong Weerasethakul, infine, è il più importante regista della storia thailandese e uno dei più grandi maestri della contemporaneità.
Quattro autori molto diversi, anche per età, quattro approcci differenti al tema, quattro linguaggi diversi, un unico scopo: raccontare le distonie del futuro, basandosi sulle limitazioni del pensiero e della libertà di azione nel presente. Raccontare un paese governato da una dittatura militare che ha messo un freno alla dissidenza e alla diversità di pensiero. Ognuno dei registi descrive il proprio paese secondo il proprio immaginario: scegliendo un registro realistico (Assarat e Weerasethakul) o fantastico ( Sasanatieng e Siriphol).
Assarat in Sunset mette in scena, con un delicato e significativo bianco e nero, il contrasto tra l’esigenza di libertà dell’artista e la sua negazione da parte dei militari, che esigono di oscurare, appunto, le fotografie di una mostra intitolata “Ho riso così forte che ho pianto”. Sasanatieng in Catopia racconta una bellissima fiaba allegorica in cui gli umani sono prede di uomini e donne-gatto.
Siriphol con un linguaggio da videarte coloratissimo e stralunato, presenta in Planetarium una realtà distopica, in cui una reggente in abiti militari e un monaco cibernetico esercitano il loro controllo sul popolo in una paranoia cyberpunk che ricorda l’immaginario di Sion Sono o di Shinya Tsukamoto.
Dopo questa fantasmagoria di colori e questa frenetica sovrapposizione di immagini, sarà l’episodio di Weerasethakul a mettere superbamente la parola fine, con The song of the city. Non è nella jungla, ma in una piazza anonima, che è in realtà un cantiere, dominata dal monumento equestre di un dittatore, che si aggirano alcuni personaggi (tutti interpretati da attori di suoi film precedenti e uno, il folk singer, interpretato dallo stesso regista), ciascuno con i suoi piccoli problemi.
Tra questi c’è un venditore di apparecchi per l’ossigeno, che dovrebbero servire per dormire meglio. Per dormire e per dimenticare l’esistente, ripulendosi i polmoni, ma per tornare poi durante il giorno a respirare la solita aria mefitica. Al di là del significato metaforico, ciò che colpisce in questo episodio è la forza incantatrice delle immagini, su cui Weerasethakul si sofferma con la sua abituale lentezza, costringendoti a riflettere su questo mondo che appare cristallizzato nella sua fissità e a riempire i vuoti che il regista volutamente dissemina nella narrazione.
C’è solo da augurarsi che questo film trovi dei canali di distribuzione perchè il pubblico possa (ri)conoscere autori che stanno segnando questi anni con uno stile originale e inimitabile.
Cristina Menegoll – MCmagazine 50