Harlem. Precious é una ragazza di appena diciassette anni ma é già alla sua seconda maternità (entrambe dovute alle violenze subite dal padre). La sua situazione é terribile, é analfabeta, é obesa, la madre non la difende, anzi, l’accusa del comportamento del padre. L’unica via d’uscita per lei, é quella di accettare l’offerta di frequentare una scuola speciale, che le permetta di elevarsi dal mondo di ignoranza in cui si trova suo malgrado. Un film in bilico tra durezza e sensibilità, capace di indicare una via di riscatto e di realizzazione personale, senza ipocrisia, senza censure, senza moralismi.
USA 2009 (109′)
2 OSCAR: attrice non protagonista/sceneggiatura non originale
Il nome completo sembra un refuso. Il resto è molto peggio. Claireece P. Jones infatti – P. sta per Precious ed è una crudele ironia – ha 16 anni, pesa un quintale e mezzo, vive nella Harlem del 1987, possiede un talento matematico naturale ma è semianalfabeta e aspetta già il secondo figlio. Da suo padre, che la violenta fin da bambina. Non bastasse, Precious abita con una madre padrona che se la tiene stretta per non perdere il sussidio statale e quando non se la infila a sua volta nel letto, per vizio, solitudine, disperazione, la picchia e la umilia senza pietà («Solo perché quello ti ha dato più figli che a me ti senti speciale, brutta troia?»). Anche nel buio più fitto però c’è uno spiraglio di luce. Per Precious questo spiraglio è la scuola “alternativa” per ragazze difficili in cui la spedisce una preside lungimirante. Gestita con mano ferma e vera dedizione da una bellissima nera di pelle chiara (capiremo più tardi che anche lei porta la sua croce), la scuola è anzitutto una comunità, un luogo – il primo – che faccia scoprire a Precious non solo il mondo ma se stessa, ovvero la possibilità di non tenersi tutto dentro ma di condividere i dettagli più atroci dell’unica vita che conosca, in un calibrato susseguirsi di rivelazioni che lascia lo spettatore sgomento e quasi incredulo. Per sopravvivere a tante atrocità la povera Precious, tutt’altro che ottusa malgrado l’espressione, si rifugia in un campionario di fantasticherie ingenue e sgargianti come la sua vita oltraggiosa che il bel film di Lee Daniels visualizza con stile ibrido fino all’eclettismo. Questo gusto per la contaminazione (di mondi, ambienti, linguaggi: nella scena più curiosa Precious proietta se stessa e la madre “dentro” La ciociara di De Sica) è la chiave di un film che malgrado gli orrori resta libero e mai ricattatorio. Ed è anche un equivalente visivo della scrittura grezza a sincopata, da diario di un’illetterata, del romanzo di Sapphire da cui è tratto il film (Push, 1996, edito in Italia da Fandango col titolo di Precious).
Curiosamente proprio questa libertà di tono, sconcertante per palati europei, rischia di essere il tallone d’Achille di un film che invece è due volte coraggioso. Per lo stile composito con cui dà forma a una miseria umana insostenibile. E per la franchezza con cui squaderna le tare meno edificanti di parte della comunità afroamericana. Non a caso negli Usa i portavoce del più ottuso apartheid al contrario hanno liquidato il film con argomenti andreottiani: anche nei ghetti i panni sporchi si lavano in famiglia, di certe cose non si parla. Precious ne parla eccome, con stile efficace proprio perché sempre eccessivo, fuori luogo, fuori misura. Come la sua tenera e inquietante eroina (la debuttante Gabourey Sidibé, un portento). Un personaggio così estremo e ben tratteggiato da non lasciarsi mai ridurre a “caso”, né arruolare sotto nessuna bandiera.
Fabio Ferzetti – Il Messaggero