L’età giovane

Jean-Pierre e Luc Dardenne

Belgio, oggi. La storia del giovane Ahmed, tredicenne, combattuto tra gli ideali di purezza del suo imam e gli appelli che gli arrivano dalla vita. Dopo essersi avvicinato all’ala più integralista della propria religione, interpreta secondo ideali estremi i dettami del Corano arrivando a pianifica di uccidere la propria insegnante… La figura di Ahmed porta il «metodo» dei Dardenne all’estremo perché non offre appigli, il loro pedinamento non lascia spazio a certezze. Nelle contraddizioni di Ahmed e della società che lo circonda c’è la forza del film.

Le Jeune Ahmed
Belgio 2019 (84′)
CANNES 72°: premio per la miglior regia


   Il «giovane Ahmed» del titolo originale del film dei fratelli Dardenne – L’età giovane – è un adolescente di oggi, in qualche parte del Belgio, un fratello, una sorella, la mamma rimasta da sola, il corpo goffo nell’incertezza dell’età, il viso nascosto dagli occhiali – quasi una metafora – che porta sin da ragazzino. In nemmeno un mese dalla play station è passato alla preghiera, via i manifesti dalla stanza, sguardi di odio alla sorella in canottiera, critiche alla madre, e alla maestra che lo segue da quando è piccolo a cui ora non vuole nemmeno più dare la mano nel saluto (…) Per Ahmed è «tutto o niente», e quando l’insegnante pure lei musulmana ma contro ogni integralismo inizia dei corsi di arabo moderno il ragazzo decide di ucciderla. Non era ciò che l’imam gli aveva chiesto il giorno che l’aveva definita apostata?
Non c’è «cronaca» però in questa storia anche se in Belgio, dove vivono i due registi, la materia è sensibile, lì è stato arrestato uno degli assassini del Bataclan, in quel quartiere di Molenbeek divenuto uno degli «archetipi» della radicalizzazione islamica nel Paese e in Europa. Il loro cinema non è mai stato esplicativo, nel corpo a corpo con la realtà preferisce interrogarla, mettendosi – e mettendo anche lo spettatore – in una posizione «scomoda», che non si appoggia sulle certezze, sul manicheismo tra buoni/cattivi, sulla ricerca di un’empatia coi loro personaggi – a differenza di quanto accade nei film di altri registi – ma predilige le sfumature, la zona dell’ambiguità in cui si dissolvono le rappresentazioni comuni.

Intorno a Ahmed il paesaggio è anonimo, nessuno scorcio di periferie «difficili», nessuna motivazione sociologica per la sua scelta: qualche traccia, forse, oltre all’irrequietezza adolescenziale, l’assenza della figura paterna, l’imam che ne è un po’ il sostituto con le sue prediche che fanno leva sui sentimenti fragili dei più giovani ma rapido a dileguarsi dalle proprie responsabilità di fronte al gesto del ragazzo (…) La figura di Ahmed porta il «metodo» dei Dardenne all’estremo perché non offre appigli; chiuso nel fantasma del martirio, rimprovera la madre di non essere una buona musulmana, nel centro di detenzione minorile dove viene mandato dopo il tentato omicidio respinge le proposte degli educatori insieme alla loro buona volontà. La gentilezza lo irrita, le categorie del mondo sono il puro e l’impuro, il resto non esiste. Come sottrarlo alla sua determinazione? Le crepe sono la spinta della sua età, la voglia di farsi prendere dalla vita nonostante tutto: un incontro, la ragazzina della fattoria in cui viene mandato a lavorare nel programma «rieducativo», la possibilità di qualcosa ancora da scoprire. Ma può bastare a rompere quel muro di fronte al quale, anche i due registi sembrano disarmati, che pone domande al loro metodo dialettico, e dunque anche al loro cinema?
In questa mancanza di certezze c’è la forza del film, che segue una geometria netta ed essenziale nell’illuminare il nostro mondo, l’Europa, su un fenomeno come la radicalizzazione religiosa; le spiegazioni messe in campo – società economia marginalizzazione – non sembrano, almeno secondo i Dardenne, essere sufficienti, se non a offrire la possibilità (rassicurante) di incasellarlo in qualche modo. Qui invece le certezze vengono meno e nel percorso «obbligato» del giovane Ahmed (…) si impone un sentimento di impotenza.

Cristina Piccino – Il Manifesto


C
on il nuovo film i fratelli Dardenne sembrano voler mettere alla prova il loro metodo, quello del “pedinamento” capace di rivelare ciò che a prima vista non si nota. All’inizio c’è la sfida di descrivere «senza cedimenti angelicati o inverosimili happy end», per usare le loro parole, quello che passa nella testa del giovanissimo Ahmed, un immigrato musulmano convinto da un imam oltranzista a sposare l’Islam più radicale. Tanto radicale da voler uccidere la sua insegnante di arabo perché accusata di apostasia. Come nei film precedenti, i Dardenne cercano di scavare dentro il personaggio, costantemente al centro dell’inquadratura, cercandone contraddizioni o i punti deboli. Che però non sembrano esistere nella mente plagiata e ultra-coerente del giovane musulmano. Il suo radicalismo respinge i familiari, tiene lontani psicologi ed educatori, si pente persino del primo bacio innocente. E anche il film rischia di girare a vuoto come fanno tutti quelli che vogliono stabilire un qualche rapporto con Ahmed. Così, di fronte alla sua logica inespugnabile e alla ammissione di impotenza della macchina da presa, il film non può che terminare su una lunga sequenza nera, come a ribadire un doppio silenzio: della società di fronte agli eccessi del radicalismo e del cinema di fronte a certe storie..

Paolo Mereghetti – iodonna.it

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