USA 2019 (122′)
VE 76° – Leone d’oro
VENEZIA – È una risata di sdegno, di odio e insieme di rivalsa quella che, nel capolavoro di Murnau, L’ultima risata, (1924) chiude la triste parabola di un uomo, che, una volta persa la sua preziosa livrea gallonata di portiere d’albergo, si vede privato di ogni dignità e considerazione sociale. Così come lo è quella di Arthur Fleck nella scena finale di Joker, che, al contrario, proprio attraverso il travestimento da clown, si prenderà la sua rivincita su tutte le umiliazioni subite, diventando un simbolo della rivolta sociale della Gotham City ricreata da Todd Phillips nel bellissimo film, vincitore del Leone d’oro.
La sua parabola, dalla sofferenza e dalla malattia, alla frustrazione sul piano lavorativo, alla catarsi finale, viene raccontata, con una geniale scelta di sceneggiatura, proprio attraverso le risate, che, come ha raccontato lo stesso Joaquin Phoenix, sono di tre tipi.
Una è quella di Arthur Fleck, la persona dietro al criminale, che conduce una vita triste con una madre malata e totalmente dipendente da lui, si arrangia con lavoretti umilianti ed è fatto oggetto di bullismo e di vere e proprie violenze. Inoltre soffre di una sindrome nervosa per cui in situazioni di stress non riesce a controllare la risata, rendendosi così ridicolo agli occhi degli altri, tanto che la madre gli ha preparato un bigliettino, che lui mostra a chi incontra per strada “Perdonate la mia risata, ho un danno cerebrale”. È la prima risata che compare nel film e che già connota il carattere di emarginazione del personaggio.
Poi c’è quella finta, esibita quando prova a sfondare come cabarettista, inseguendo il suo sogno di diventare uno “stand-up comedian” e di partecipare allo show di Murray Franklin (Robert De Niro), suo idolo. Ma se la prima spaventa la gente, questa seconda tragicamente non fa ridere.
E infine c’è quella finale liberatoria, lo sghignazzo di Joker, una risata stridula, brutale e contagiosa, che segna il passaggio alla leggenda, alla saga di Batman, al Joker che tutti conosciamo.
Solo un attore come Phoenix avrebbe potuto sostenere una performance così complessa, tale da trasmettere tutto il senso del film attraverso la fisicità, del volto, ma non solo, dell’intero corpo, smagrito, nervoso e impacciato nei movimenti. E per l’intero film la macchina da presa di Phillips si inchioda a lui, al suo viso scavato, ai suoi occhi spiritati, al suo corpo sgraziato, ai suoi piedi, alle sue mani, lasciandola ogni tanto libera di percorrere le strade degradate di una Gotham che assomiglia tantissimo alla New York degli anni Settanta: quella delle gang, della droga e della povertà, de I guerrieri della notte e di Taxi Driver, linkato esplicitamente dalla presenza di Robert De Niro.
Una città più affine a quella di Nolan che a quella di Burton, anche se Phillips ha giustamente scelto di tenersi lontano da possibili confronti con i modelli precedenti sia dal punto di vista iconografico sia da quello narrativo, adottando un ritmo lento da commedia drammatica ben lontano da quello frenetico dei film di supereroi.
E infatti Joker va apprezzato proprio se visto non tanto come un’integrazione al fumetto di Bob Kane o ai vari film su Batman e neppure come un tentativo di “spiegare troppo” il personaggio, quanto come un film a se stante su “una persona che cerca di trovare il suo spazio nel mondo, di entrare in connessione con gli altri, senza riuscirci” (Phoenix). Una storia che abbiamo visto raccontata centinaia di volte al cinema, ma della quale la coppia Phillips-Phoenix ha saputo dare una versione dirompente, affascinante e trascinante.
Cristina Menegolli – MCmagazine 52