Spagna 2019 (113′)
CANNES – Ci voleva Marco Bellocchio, l’uomo, il regista che in più di cinquanta anni di attività (I pugni in tasca è del 64) ha sempre avuto il coraggio di gettare lo sguardo sui grandi snodi della società italiana, con film come La Cina è vicina, Sbatti il mostro in prima pagina, Buongiorno, notte o più recentemente sul dramma di Eluana Englaro (Bella addormentata).
Ed ecco il risultato. In concorso a Cannes, Il traditore ne esce sì senza premi ma con tredici minuti di applausi e il consenso unanime della stampa internazionale. In più di tre ore di durata, il film ricostruisce puntualmente la vicenda umana, giudiziaria e politica di Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi “, primo e più importante pentito di mafia.
Lasciando da parte qualsiasi riflessione sulla moralità del pentimento, che lo avrebbe portato “altrove”, a Bellocchio interessa soprattutto evitare che il personaggio possa in qualche modo suscitare empatia. Pur senza entrare nel merito, è subito chiaro che tra corleonesi e palermitani non esiste una mafia buona, tutti sono ugualmente crudeli e anaffettivi. Il tentativo di Buscetta di spacciarsi come rappresentante della mafia all’antica, quella che non uccideva i bambini, fallisce miseramente in corso d’opera.
Si comincia dal Brasile, dove il “boss dei due mondi”, resosi conto di appartenere ormai alla fazione perdente di Cosa Nostra, si è rifugiato dal ‘72. Lì si è rifatto una vita, ovviamente sotto falso nome, sposando Cristina (l’attrice brasiliana Maria Fernanda Cândido), e avendo da lei due figli.
Ma dura poco. Nel ’74 è arrestato ed estradato in Italia. Ed ecco l’incontro col giudice istruttore Giovanni Falcone. Si parlò all’epoca di “amicizia” tra i due, ma Bellocchio si guarda bene dall’avvalorare questa tesi. Forse reciproca stima? Ma neanche, solo coincidenza di interessi. Fatto sta che l’imputato decide di trasformarsi in collaboratore di giustizia. Pentimento? Dubbi? Ci sono sì un paio di visioni (i figli di primo letto assassinati), di incubi, di sogni ad occhi aperti (nel migliore stile del Nostro) ma è evidente che lui vuole solo salvarsi.
Alla fine, al termine di mesi di colloqui (ed è questa forse la parte più debole del film, un po’ tirata via, da pura fiction), partono 366 mandati di cattura e si arriva al maxi processo si Palermo. Scena grandiosa, di massa, più di un’ora di sabba, di sacra rappresentazione con decine di personaggi, uomini che si spogliano, donne che piangono o inveiscono; quasi un affresco della depravazione morale di quella Sicilia dove tutti mentono, tutti cercano di scaricare le colpe sugli altri, tutti sono ugualmente colpevoli (e, per una volta, condannati!).
Emergono, per l’importanza del ruolo e la bravura degli attori, il Pippo Calo’ di Fabrizio Ferracane e il Totuccio Contorno di Luigi Lo Cascio (in Buongiorno, notte, giovanissimo, era uno dei carcerieri di Moro).
Lui, Buscetta, solo al centro della scena, una sfinge (ma non certo un personaggio shakesperiano, come qualcuno ha scritto), si dichiara colpevole solo di contrabbando di sigarette e si prepara a ricevere la generosa ricompensa dello stato italiano: centinaia di milioni, una nuova identità, la residenza negli Stati Uniti.
Ma, restando in Italia, ecco la strage di Capaci; filmati originali, una scena forte, coi mafiosi che sputano sulla tv e stappano bottiglie di champagne. Per finire col processo ad Andreotti, dove però il traditore fa una ben meschina figura, laddove di fronte alla gravità dei fatti ipotizzati (un supposto coinvolgimento del politico romano negli omicidi Pecorelli e Dalla Chiesa) Buscetta, incalzato dall’avvocato Coppi, è costretto ad ammettere di averne riferito “per sentito dire”!
Inframmezzate, le immagini del triste esilio americano; i continui spostamenti, l’anonimato, l’abbandono della moglie, la solitudine, il timore delle vendette, la morte di cancro nel 2000, come un signor Nessuno.
Un grande ritorno, quello di Ballocchio, una grande interpretazione quella di Savino, non ci fosse stato Banderas…
Giovanni Martini – MCmagazine 51