Nella Polonia post bellica, il celebre pittore Władysław Strzemiński è professore presso la Scuola Nazionale di Belle Arti di Łódź. Considerato dai suoi studenti alla stregua di un messia della pittura moderna e tra i fondatori della corrente dell’Unismo, viene espulso dall’università e dal sindacato degli artisti per essersi sottratto ai rigidi codici del realismo socialista. Disoccupato, malato e in povertà trova comunque il sostegno dei suoi studenti. Un film che assume inevitabilmente la forma di un testamento poetico e politico, lasciandoci in eredità la “visione” di Strzemiński e lo “sguardo” di Wajda. Messa in scena classica, rigorosa ma al tempo stesso appassionata e vibrante.
Powidoki
Polonia 2016 (98′)
Una giovane pittrice arriva con tele e cavalletto su una collina affollata di artisti al lavoro. Cerca il professor Strzeminski, grande pittore e mutilato di guerra che in quel momento, ritto sulle stampelle (gli mancano una gamba e mezzo braccio), si trova con alcuni allievi in uno dei punti più alti di quel luogo idilliaco. Riconosciuta la giovane, l’artista le fa un cenno come per dire “arrivo”. E in effetti, un momento dopo, eccolo lasciarsi rotolare fino a lei sul fianco erboso della collina, imitato dagli allievi in uno slancio di amor pànico che ci dice tutto di Wladyslaw Strzeminski, del suo coraggio, del suo rapporto con l’arte.
Poco dopo lo ritroviamo davanti a una tela vergine nel suo studio di Lodz quando di colpo tela e atelier si tingono di rosso. È un enorme ritratto di Stalin, issato sulla facciata a coprire le finestre (è il 1948, la stalinizzazione della Polonia prende il volo). Un attimo, e Strzeminski squarcia il telo con la stampella, riportando la luce nell’atelier ma firmando anche la sua condanna.
Il resto del film, l’ultimo di uno dei più grandi registi europei del dopoguerra, non fa che confermare quanto anticipato da queste due scene magistrali. Con una forza, un rigore, un’insistenza così martellante e priva di speranza da fare di Il ritratto negato qualcosa più di un film-testamento. Un monito. Un omaggio che dietro la figura storica di Strzeminski, già sodale di Chagall, Malevic e Rodcenko, poi annientato per non essersi piegato al realismo socialista, sa quasi di autobiografia. Una via crucis evocata con tutta la durezza di cui Wajda, morto a 90 anni nell’ottobre 2016, era specialista (bastano i titoli: Cenere e diamanti, Senza anestesia, L’uomo di marmo, L’uomo di ferro…). Per mettere a fuoco un combattente che vive per l’arte, tanto da rifiutare l’amore di una studentessa e non fare nulla per evitare alla figlia l’orfanotrofio. Ma capace di un gesto estremo per la moglie, Katarzyna Kobra, qui volutamente invisibile ma protagonista con lui di un irripetibile sodalizio artistico, che è uno dei momenti più alti di questo film visivamente raggelato ma pieno di fuoco. Cenere e diamanti, ancora una volta. Come succedeva quando i film potevano prendersi il lusso di non smussare, non spiegare, non illustrare. Tanto, dice Strzeminski, «in arte o in amore potete dare solo ciò che già avete».
Fabio Ferzetti – L’Espress
…Wajda considerava Strzemiński “uno degli artisti polacchi di maggior talento” e un resistente ad ogni imposizione dello stalinismo feroce di quegli anni. Il biopic che gli dedica è il condensato di un’esistenza devota all’arte e alla sua “protezione”, ma anche un inno al perseguimento della libertà creativa ad ogni costo. Attraverso il racconto del pasionario Strzemiński, Wajda ripropone dunque i temi a lui cari “confezionati” in una rappresentazione coerente all’estetica formale del pittore celebrato.
Lo stile adottato, infatti, inneggia a un’essenzialità ai limiti del concettuale, esattamente come andava predicando uno dei teorici più vivaci dell’arte astratta. In questo senso il regista visualizza attraverso il segno cinematografico la comprensione teorica di Strzemiński, colui che per Wajda aveva “capito il sentiero dell’arte moderna”. Da lodare la luce e i colori adottati nella fotografia di Paweł Edelman. Film importante, a tratti commovente e certamente definitivo
Anna Maria Pasetti – mymovies.it
In una sala del museo Sztuki di Łódź sono conservate opere neoplastiche e costruttivistiche di Władysław Strzemiński. Una sala che proprio il celebre pittore e docente polacco aveva progettato. Smantellata all’inizio degli anni Cinquanta, è stata restaurata nel 1969. Ripensando a Il ritratto negato di Andrzej Wajda, ci sembra che il cuore della pellicola stia proprio lì, in quella sala barbaramente rimossa dalle autorità della Polonia sovietizzata. Cancellata dallo sguardo limitato del comunismo cannibale. Ed è lo sguardo di Wajda, del cinema di Wajda, così classico e definito, a restituirci la centralità storica della sala, dell’arte e dell’etica di Strzemiński, e a tracciare le traiettorie della lenta ma inevitabile agonia morale e politica del comunismo sovietico.
L’opera ultima di Wajda è un biopic dalla complessa e stratificata linearità. Una duplice linearità. Chiaro negli intenti e nel suo procedere, Il ritratto negato contrappone la fiera debolezza di Strzemiński all’inscalfibile moloch staliniano: l’artista e docente, brillante teorico e fiero oppositore del regime, già minato nel fisico, che sembra volersi scagliare a testa bassa contro granitici mulini a vento; l’apparato politico e burocratico polacco, gelido, disumanizzato, dominato da una propaganda feroce che si specchia nel realismo socialista. Si nutre del realismo socialista.
Il ritratto negato assume inevitabilmente la forma di un testamento poetico e politico, lasciandoci in eredità la visione di Władysław Strzemiński e lo sguardo di Andrzej Wajda. Con la sua messa in scena classica, rigorosa ma al tempo stesso appassionata e vibrante, Wajda riesce a declinare senza ridondanti didascalismi o enfatiche sottolineature (qualche nota in meno, forse) la complessità umana e artistica di Strzemiński, l’importanza capitale dell’osservazione e narrazione della realtà e della Storia, il tessuto umano, sociale e politico che gravitava attorno al pittore/docente/teorico, tratteggiando anche tre memorabili personaggi femminili – la figlia Nika, la studentessa innamorata Hania e l’ex-moglie Katarzyna Kobro, fantasma che prende corpo grazie ai dialoghi tra Władysław e Nika.
La mise-en-scène wajdiana, come le linee, le pennellate e gli accostamenti cromatici strzemińskiani, segue un disegno preciso, prende posizioni chiare, ragionate, come un manifesto teorico la cui forza scaturisce dall’incessante immersione nella realtà storica, politica, sociale. Traiettorie esteticamente differenti, quelle di Wajda e Strzemiński, ma eticamente e narrativamente affini. Della parabola del grande pittore, Wajda sceglie giustamente il periodo più tragico, quello della sistematica rimozione di tutto ciò che era altro rispetto al dominante realismo socialista: nell’opposizione senza via d’uscita di Strzemiński al culto della personalità, al culto stalinista, si possono infatti rintracciare le linee guida della filmografia di Wajda, una affinità che unisce l’Unismo a L’uomo di marmo, I dannati di Varsavia a Teoria della visione, pubblicato postumo nel 1958.
Non è solo Strzemiński l’alter ego di Wajda. Lo sono anche il direttore del museo Sztuki e i suoi (affranti) dipendenti, la figlia Nika, la moglie Katarzyna Kobro, il manipolo di fedeli studenti. Tutti, in un modo o nell’altro, piccoli o grandi eroi della lotta per la sopravvivenza – sopravvivenza del singolo individuo quanto degli ideali politici, dell’Arte, della libertà. La lezione sulla tripartizione di Van Gogh diventa una lezione sul cinema, sull’etica personale e collettiva, sulla responsabilità morale dell’artista: lo sguardo è il punto d’intersezione tra il cinema (classico) di Wajda e le sperimentazioni (avanguardia, mai avanguardismo) di Strzemiński.
Le immagini residue di Strzemiński, come del cinema di Wajda, restano impresse chiaramente sulla retina, con i loro contorni netti e le intenzioni chiare.
L’Arte e la Storia. L’Arte è Storia.
Enrico Azzano – quinlan.it