Reduce della Guerra di Corea e floricoltore di professione, Earl Stone è costretto a cessare la sua attività e accetta un lavoro apparentemente semplice: deve solo guidare. Peccato che in realtà questo significhi diventare un corriere della droga per un cartello messicano. Presto un agente della DEA Colin Bates inizia a indagare e si mette sulle sue tracce… Un altro grande tassello della filmografia di Eastwood che sa coniugare la fluidità narrativa del cinema classico con l’urgenza di una contemporaneità avara di etica e ideali.
USA 2018 (116)
Ottantotto anni, trentasettesimo lungometraggio da regista; e in The Mule ancora protagonista. Anche se, nel 2008 dello splendido Gran Torino, aveva annunciato che sarebbe stata la sua ultima apparizione come attore in un film da lui diretto. Eccolo invece protagonista, per la ventitreesima volta, in questa specie di thriller rilassato: un floricultore, rovinato dall’avvento di Internet, che alla sua età, ma non ci giurerei a sua totale insaputa, diventa un “mulo”. Che in inglese significa anche “ciabatta”; ma,egualmente, qualcuno che fa il corriere di droga… Con The Mule Clint Eastwood si allontana così dalla sua trilogia sull’eroismo, iniziata dal faticoso American Sniper nel 2014 ma proseguita con il moderno , sorprendente Sully due anni dopo; conclusa, infine, dallo sbrigativo Ore 15.17 – Attacco al treno nel 2017. Ora, eccolo inventare, con un colpo d’ala forse inaspettato anche dai suoi più fedeli ammiratori, dietro le apparenze di un film soltanto tenero e divertente, qualcosa che viene a fondersi meravigliosamente con quel paesaggio americano dalle vaste distese assolate che fa da sfondo. Il film accosta dei temi che il cineasta ha già trattato, come l’invadere pervertitore del denaro, la volontà dell’espiazione (anche se qui si può anche dubitare se totalmente sincera…): ma al vecchio eroe hollywoodiano riesce ancora di tradurli in un tono leggero e semiserio. Così, pur incollandosi a un personaggio nuovo e dolcemente ambiguo, Clint finisce per accostare il film a Mystic River, Unforgiven, Gran Torino: tanti gioielli nei quali il cineasta ha avvicinato in luminosa, mai esibita armonia, l’insostituibile presenza dell’attore all’intuito di uno sguardo attraverso la cinepresa. Il tutto su sottofondo di una smussata ambiguità trumpiana? Forse: ma tutta stemperata dal tono di quel personaggio nostalgico, anche fragile, mai cinico. Dal suo piacere di lasciarsi andare di fronte alla sua cinepresa, curvo e mai spossato, finalmente antieroico; perfettamente incorniciato com’è dalla misura infallibile degli accostamenti di montaggio. Da quella particolare attitudine a svelare il proprio intimo; a mai impedirsi dal rivelare tanti aspetti perdenti del proprio personaggio. Certo, non manca pure un po’ di buonismo nel finale di The Mule. Ma come non perdonarglielo, a quel Earl Stone che nel corso dei suoi più o meno incoscienti andirivieni tra El Paso e Chicago annacqua la propria malinconia nei tradizionali sfondi musicali che da sempre gli appartengono? Questa volta sono deliziosamente country, anche se è facile indovinare dietro la mano di un jazzista latino di razza come Arturo Sandoval. Un altro colpo di mano dedicato a Clint, al suo apparentemente modesto capolavoro della senescenza.
Fabio Fumagalli – filmselezione.it