New York, 1991. Lee Israel ha un grande talento e un pessimo carattere. L’alcolismo e la misantropia, le alienano qualsiasi possibilità di carriera. Licenziata per un bicchiere e un insulto di troppo, deve trovare un altro modo, e deve trovarlo presto, per sbarcare il lunario e curare il suo adorato gatto. Due lettere di Fanny Brice, rinvenute per caso in un libro della biblioteca e vendute a 75 dollari, le forniscono l’idea che cercava. Biografa talentuosa, mette a frutto la sua conoscenza della materia e il suo talento di scrittrice. Ispirato alle memorie dell’omonima scrittrice Lee Israel, il film mette in scena un dialogo accattivante tra ciò che è falso e ciò che è originale, tra il valore della copia e la passione per il collezionismo. La riproducibilità è una questione di tecnica o di intelletto?
Can You Ever Forgive Me?
USA 2018 – 1h 46′
Può essere che non troviate i falsari interessanti, nel dubbio evitatelo. Aggravante: si parla di biografie, di scrittori e delle loro lettere, abilmente imitate da una scontrosa signora che si chiamava Lee Israel. Al cinema non vengono mai benissimo, chi scrive a macchina non fa spettacolo. Ma se i falsi vi interessano almeno un po’, e assieme ai falsi vi interessano i motivi che spingono il falsari a coltivare l’arte, e se vi interessa la vita degli scrittori ancillari, che per mestiere scrivono biografie (e non confessano neppure a se stessi la smania divorante di scrivere qualcosa in proprio) scavalcate il titolo respingente e andate a vedere il film. Copia originale vanta una sceneggiatura scritta dalla perfida Nicole Holofcener con Jeff Whitty, entrambi candidati all’Oscar come i magnifici attori Melissa McCarthy e Richard E. Grant: la falsaria e l’amico gay che le dà una mano a spacciare le lettere appena falsificate. Lee Israel cadde in disgrazia per una biografia non autorizzata di Estée Lauder (prima era nelle classifiche dei bestseller). Si ritrovò senza lavoro, in un appartamento dove non voleva entrare neppure il disinfestatore, per compagnia una vecchia gatta malata (e niente soldi per farla curare). Alle feste rubava la carta igienica, la sua agente le diceva: “Non sei abbastanza famosa per essere tanto stronza”. Voleva scrivere una biografia di Fanny Brice, la cantante e attrice servita da modello per Funny Girl con Barbra Streisand. In mancanza di anticipi, rubò una lettera di Fanny e cominciò a frequentare le librerie antiquarie. Ma non c’è business che non possa essere migliorato. Un compratore si lascia scappare “si vendono meglio le lettere più personali e piccanti”. E Lee Israel aggiunge i suoi Ps alle lettere rubate: “Il mio nipotino ha il naso uguale al mio. Pensi che debba risarcirlo?” Poi si dedica a Noël Coward e a Dorothy Parker. Dotata del loro stesso umorismo caustico, le lettere le venivano benissimo, e per dare una patina di vecchio c’era il forno. Inciampa, come capita spesso ai falsari, lasciandosi sfuggire un’anacronismo. E i collezionisti truffati allertano l’Fbi.
Mariarisa Mancuso – Il Foglio
Le mille luci di New York. La malinconica bellezza dei suoi locali e delle sue insegne. I marciapiedi, i pub e i salotti in cui serpeggiano riflessioni sul blocco dello scrittore e sulla struttura narrativa lineare. È a tratti permeato da atmosfere alla Woody Allen Can You Ever Forgive Me? (titolo italiano Copia originale), anche se l’incantesimo romantico non nasconde il lato oscuro della Grande Mela, fatto di sopravvivenza finanziaria e vite da marciapiede. Siamo nel 1991, Lee Israel (Melissa McCarthy) osserva sprezzante il mondo “alto”, ma appartiene al “basso”. È una scrittrice che non ha avuto successo e che ha perso il lavoro. Non ha i soldi per pagare l’affitto del suo appartamento sporco e ha un problema con l’alcol e le persone. La sua è una vita anonima contraddistinta da ambizioni letterarie, come le migliaia di anime che arrivano a New York. E la città sembra assistere immutabile al suo destino, sospesa nella sua abbacinante indifferenza e nelle tante storie umane che racchiude. Quella di Lee diventerà inaspettatamente movimentata, una specie di spy-story ambientata nel mondo dei collezionisti. Perché una cosa questa donna grassa e riservata la sa fare bene: rubare, anzi… trasformare in arte il furto, creare un falso che nessuno sa riconoscere e a cui tutti vogliono credere. D’altronde chi decide cosa è letteratura e cosa non lo è? Lee scopre di essere una straordinaria scrittrice di lettere false ed eccola sbarcare il lunario vendendo a peso d’oro finte pagine firmate da drammaturghi e attori: Dorothy Parker, Noël Coward, Fanny Brice. Il suo complice è l’omosessuale e compagno di sbronze Jack (Richard E. Grant), un dandy scintillante e allo stesso tempo malinconicamente segnato dalla vita e dalla città. Alla base c’è il libro omonimo e autobiografico pubblicato dalla Israel a metà Anni ‘90, da cui Nicole Holofcener e Jeff Whitty (candidati all’Oscar) confezionano una sceneggiatura strutturalmente impeccabile, fatta di tanti elementi differenti, condensati e sciolti senza mai cadere nell’intellettualismo: l’omaggio alla città, la solitudine, l’intrigo, i sentimenti dei personaggi, la riflessione teorica sull’arte. Ci sono film che rischiano di funzionare più sulla carta che alla visione, ma Can you ever forgive me? non è uno di questi. Molto merito va dato a Melissa McCarthy e Richard E. Grant (nomination anche per loro) che assumono sul loro corpo, sulle rughe e sulle lacrime il peso dolente e autoironico di due looser in cerca di riscatto. È forse soprattutto grazie a loro che Marielle Heller riesce a intercettare un mondo emotivo molto “vero”. La macchina da scrivere, gli oggetti, i cappotti e i maglioni, le ciniche battute di Lee e Jack, i drink scolati, in qualche modo la regista riesce a farci stare dentro al “suo” film, con uno sguardo tanto semplice quanto intriso di nostalgia e di sincero affetto per i suoi personaggi. Come quelle foto sbiadite capaci di raccogliere il sapore di un tempo perduto, Can You Ever Forgive Me? alla fine sembra accarezzare tutte le emozioni e i rimpianti che ci è concesso vivere…
Carlo Valeri – sentieri selvaggi.it