Kiz Kardesle
Turchia/Germania/Paesi Bassi/Grecia 2019 – 1h 48′
BERLINO – Premio speciale della giuria a Venezia 2015 per il suo Frenzy, fosco ritratto distopico di una Istanbul periferica, in preda a forze oscure e sotto la minaccia del terrorismo, anche di stato, il regista turco Emin Alper si ripresenta con questo A Tale of Three Sisters e, a parte la comune a temporalità e unità di luogo e di azione, il film non potrebbe essere più diverso.
Se là il riferimento alla situazione politica attuale della Turchia di Erdogan era, pur in assenza di dati specifici, evidente (tanto da costargli la qualifica di «opposition filmmaker» e la conseguente esclusione da qualsiasi finanziamento statale), Tre sorelle è una sorta di (realistica) favola, immersa in una cornice apparentemente idilliaca. Il perno della vicenda è la tradizione turca della ‘besleme’, per la quale ragazze provenienti da povere realtà contadine dell’Anatolia vengono dai genitori piazzate presso facoltose famiglie delle città, con un equivoco ruolo a metà tra la figlia adottiva e la balia-collaboratrice domestica.
Nella scena iniziale del film una jeep, percorrendo una strada sterrata piena di tornanti tra alte montagne, ci conduce al villaggio, oramai quasi disabitato, dove vive il protagonista, il vedovo Sevket, con le tre figlie, per le quali, l’usanza della ‘besleme’ avrebbe dovuto essere il solo modo per sfuggire al tedio e alla frustrazione della vita al villaggio. Se non che, apprendiamo, Reyhan la più grande, è dovuta tornare perché incinta (e costretta ad un matrimonio riparatore con l’idiota pastore Veysel), la mediana Nurhan è stata cacciata dopo la morte misteriosa del neonato che le era stato affidato. Resta la minore, Havva, sul punto di percorrere lo stesso cammino. Impossibile non pensare (e d’altronde Il regista non fa nulla per negare la somiglianza) al dramma cechoviano de Le tre sorelle; anche lì “in città, in città!” era il grido che fuoriusciva dalla gola e dal cuore delle protagoniste. Il film è così tutto un susseguirsi di ‘conversation pièces’, di scene di interno, con gli incontri-scontri tra le sorelle, mentre dall’altro canto il padre, con l’aiuto del capo villaggio, intrattiene il visitatore Necati per convincerlo a portare con se la più piccola.
Del mondo di fuori, della Turchia vera, si sente solo parlare; niente televisione, niente cellulari. Tutto (salvo il tragico imprevedibile finale) è come già accaduto, la realtà odierna (con i suoi povertà, paternalismo, machismo) sembra anch’essa appartenere ad un passato al quale le ragazze cercano inutilmente di sottrarsi.
Senz’altro, a volte, A Tale of Three Sisters si riduce a ‘teatro filmato‘, ma sono un valore aggiunto la pregevole fotografia (le alte cime come una simbolica prigione, gli interni scuri come ispirati alla pittura olandese del ‘600 o a certo Van Gogh) e le tristi musiche originali, a sottolineare la generale infelicità. E, a dare un po’ di suspense, o forse a suggerire una dimensione ‘altra ‘, il periodico apparire di due personaggi, sedicenti cacciatori di lupi; mentre a più riprese, a dare un tocco di balzana allegria, o piuttosto a simboleggiare il ritmo circolare della vicenda, Hatice, la scema del villaggio, si abbandona a furibonde capriole sui pendii erbosi.
Certo, forse la profondità filosofica ed esistenziale dell’ultimo Ceylan è di la da venire, ma il ritratto di un paese, l’Anatolia , irrimediabilmente fuori dalla storia, è suggestivo e toccante.
Nella scena finale, la stessa jeep dell’inizio si allontana, verso un mondo forse non raggiungibile…
Giovanni Martini – MCmagazine 49