Una troupe cinematografica e un magazzino abbandonato: la location perfetta per girare un film sugli zombie. Soprattutto se il budget della produzione è rasoterra. C’è solo un piccolo dettaglio che di perfetto ha ben poco: là dentro, in passato, sono stati compiuti misteriosi esperimenti militari e il magazzino, adesso, pullula di morti viventi! Riusciranno i nostri eroi a vendere cara la pelle? Girato a bassissimo budget, un film che si è imposto all’attenzione dei festival di mezzo mondo. Zombie contro zombie non è solo un horror artigianale ed esplicitamente metacinematografico, ma anche un sincero e affettuoso atto d’amore nei confronti del cinema!
Kamera o tomeru na!
Giappone 2018 – 1h 36′
Dietro un film riuscito immaginiamo che ci sia una solida organizzazione produttiva, una professionalità a prova d’errore, un cast degno di questo nome. Ma dietro un film squinternato e goliardico cosa c’è? Produttori altrettanto approssimativi? Attori e tecnici dilettanteschi? Una sceneggiatura che fa acqua? La voglia di alzare il sipario e mostrare il dietro le quinte di un film di serie Z è l’idea (non nuova ma in questo caso molto divertente) che ha trasformato una prova d’esame costata 20 mila dollari in un cult che sta sbancando in Giappone — dove Ueda Shinichiro l’ha girato — e che arriva adesso in Italia col titolo Zombie contro Zombie dopo aver trionfato in una trentina di festival. Il primo è stato il Far East Film Festival di Udine, che l’ha scoperto e ha spinto i giovani soci della Tucker Film a distribuirlo in tutta Italia.
Cominciamo dall’inizio. E cioè da un piano sequenza di 37 minuti e 24 secondi sulle riprese di un film di zombi. C’è un’attrice che non riesce a dimostrare autentica paura, c’è un attore che non vede l’ora di fare un bagno per togliersi il pesante trucco zombiesco, c’è un regista che accusa la protagonista di essere «falsa perché la tua vita è falsa», c’è una segretaria di edizione che cerca di riportare un po’ di calma invitando tutti a prendere una boccata d’aria fresca. Le riprese infatti avvengono al chiuso, dentro una specie di centrale abbandonata, su cui girano voci non proprio rassicuranti: durante la guerra sarebbe stata un laboratorio dove fare esperimenti per riportare in vita corpi morti. «Leggende metropolitane» taglia corto la segretaria, ma ecco che qualcuno bussa alla porta della centrale. Ed è naturalmente un vero zombi! Inizia così una specie di gara a rimpiattino con i due protagonisti e la segretaria che cercano di evitare gli agguati degli zombi mentre il regista ritrova la voglia di girare perché «questo sì che è cinema, non c’è finzione!». E tutto gli sembra «dannatamente reale, fottutamente fantastico».
Allo spettatore le cose sembrano un po’ meno «fantastiche» ma sempre più divertenti, con improbabili colpi di scena, urla sempre più strozzate, sangue a fiotti e zombi vari. C’è anche una manina pietosa che toglie un po’ di gocce di sangue schizzate sull’obiettivo della macchina da presa per migliorarne la visibilità. La sensazione è quella di assistere a un film simpaticamente sgangherato, dilettantesco ma non privo di guizzi curiosi, perfetto per reggere con qualche sghignazzata i primi 37 minuti e 24 secondi, quando sull’immagine dell’eroina tutta insanguinata e ripresa dall’alto scorrono i titoli di coda. Ma non siamo in un corto. Il film dura ancora 61 minuti e con un salto indietro nel tempo («un mese prima») quello che abbiamo appena visto prende tutto un altro significato. E soprattutto diventa molto più divertimento.
Per non rovinare la sorpresa, possiamo dire solo che il regista, abituato a dirigere con passo svelto short pubblicitari, si vede affidare da un variopinto gruppo di produttori l’incarico di girare un horror di 37 minuti da mandare in diretta televisiva, come si faceva agli albori della tv dove tutto doveva funzionare alla perfezione perché non era possibile sbagliare una battuta o un ingresso in scena. Dobbiamo aggiungere che quando le riprese inizieranno (quelle stesse che noi abbiamo visto all’inizio del film, come fossimo davanti a un televisore) niente andrà per il verso giusto. Ma come dice il titolo originale giapponese (Kamera o tomeru na!) l’imperativo è «non fermare la telecamera!». E alla fine anche lo spirito goliardico e dissacratore su cui si regge l’operazione diventa — con qualche compiaciuta sghignazzata — una simpatica presa in giro della professionalità televisiva e dell’artigianato cinematografico («è un programma televisivo, non è arte» si sente dire il regista che si lamenta degli scarsi mezzi a disposizione), una riflessione non priva di intelligenza sull’entusiasmo dei neofiti, sull’arte di arrangiarsi, sul cinema come capacità di inganno e invenzione. Cosa si vuole di più?
Paolo Mereghetti – Il Corriere della sera