Sunset Song

Terence Davies

Scozia, inizio ventesimo secolo. Alla morte della madre, l’umile famiglia dei Guthrie si dissolve: i figli piccoli vanno a vivere con gli zii, mentre l’adolescente Chris rimane con il fratello e il padre a lavorare nella fattoria. I due uomini hanno un rapporto burrascoso e presto il fratello emigra in Argentina, lasciando sulle spalle della ragazza il peso della gestione del podere. Quando muore anche il padre, Chris sente che il legame con la terra è troppo forte per trovare un lavoro in città. Sposa allora un contadino, Ewan Tavendale, e ha con lui un figlio. Ma la felicità ritrovata è sconvolta dallo scoppio della guerra. Ancora un melodramma per Terence Davies che ama rievocare sensazioni di un cinema classico, un cinema fatto con il cuore e la sapienza in cui l’odore passato del lavoro ben fatto diventa comunicazione emotiva.

Gran Bretagna/Lussemburgo 2015 – 2h 15′

Uno degli sguardi più malinconici del cinema europeo è tornato a far brillare la sua pupilla cinematografica: Terence Davies (autore di Voci lontane…Sempre presenti e The Deep Blue Sea) ha presentato al Torino Film Festival – che lo ha celebrato con Gran Premio Torino – il suo ultimo film, Sunset Song, nuovo viaggio nel passato e nella dolorosa memoria della Gran Bretagna.
Il film racconta della giovane e bella Chris nella Scozia degli anni ’10, ragazza intelligente che sogna di studiare ed emanciparsi dai campi e dalla famiglia, ma che la vita e la guerra proveranno a fiaccare, senza in fondo riuscirci. Scritto da Davies sul classico di Gibbon Canto del tramonto, Sunset Song è un melodramma storico che affronta con gusto classico il ritratto di una donna emancipata, in conflitto con i tempi e con la storia, prima che con gli esseri umani.
Accompagnato dalla voce di Chris che legge passi dello scritto di Gibbon, il film segue una strada più diversa, forse un po’ più convenzionale rispetto ai più celebri esiti del cinema di Davies, ovvero riconnettersi a un modo di pensare e fare cinema anziché rielaborare in chiave personalissima la storia e le sensazioni spesso autobiografiche: e così Sunset Song diventa uno di quei ritratti femminili impastati di sudore, calore, lacrime e sole, e anche sangue, di cui il cinema classico americano o inglese è ricco. Chris è pienamente uno di quei personaggi, la sua lotta per l’indipendenza, per la propria fierezza personale senza negarsi i doveri che la società le imponeva diventa la lotta di Davies per rievocare sensazioni di un cinema andato.
Nelle immagini di Michael McDonough e nei suoni si sento il gusto per fragrante di un cinema fatto con il cuore e la sapienza, l’odore passato del lavoro ben fatto che diventa comunicazione emotiva. Il limite è che in questa scelta, Davies pecca di accademismo e il suo film appare più convenzionale e relativamente freddo rispetto al suo solito. Ma quando usa le canzoni per liberare il suo cinema e il suo cuore – tratto distintivo del suo cinema – le sensazioni a fior di pelle riaffiorano, come nel canto della bravissima Agyness Deyn il giorno del suo matrimonio o nel bellissimo finale, puro e lirico cinema daviesiano, per cui perdonare limiti e scelte meno felici.

Emanuele Rauco – cinematografo.it

Scozia, inizi del Novecento. La giovane Chris Guthrie vive in una fattoria nella regione di Aberdeen: una famiglia numerosa, guidata da un patriarca che crede in Dio e nel socialismo almeno quanto in un’educazione brutale per i propri figli. Quando la madre impazzisce e si suicida Chris capisce che il suo destino sarà legato per sempre a quella terra. Dopo aver accudito il padre fino alla sua dipartita, Chris sposa l’uomo che ama, Ewan, e finalmente conosce la felicità. Ma la Grande Guerra sta per scoppiare.
Nasce come un’elegia e si chiude come un mélo da Hollywood classica il ritorno alla regia di Terence Davies. Un feuilleton per immagini che porta su grande schermo il romanzo di Lewis Grassic Gibbons, storia di un’identità scozzese sconvolta e tradita dalla Grande Guerra, dopo la quale nulla sarà come prima. Per il ruolo di Chris, una Rossella O’Hara delle Highlands, Davies si affida alla modella Agyness Deyn, che soffoca il suo glamour tra abiti e acconciature d’epoca. Divisa inzialmente tra sogno e realtà, tra aspirazioni intellettuali e attaccamento alla propria terra, Chris si trova ben presto senza scelta, invischiata in un meccanismo inesorabilmente patriarcale. Il pater familias, socialista a parole ma tirannico nella sostanza, è ancora una volta (dopo Top of the Lake e Tyrannosaur) incarnato da Peter Mullan, che con poche espressioni del viso trasmette la ferocia di un uomo incapace di scendere a compromessi.
Opera composta da più anime, Sunset Song in più di un’occasione fa pensare a problemi produttivi che possano giustificare il suo andamento diseguale. Gli strappi tra un segmento e l’altro risultano bruschi al di là della volontà di Davies: il contrasto è particolarmente infelice nell’ultima parte, con Ewan che torna dalla guerra trasfigurato in un parossistico bruto e con un epilogo scritto e recitato in maniera approssimativa. Sunset Song vive dei suoi ossimori, di una macchina da presa pregevole che cerca di abbracciare le Highlands e i suoi campi di grano (ma censurabile per l’ovvietà triviale del movimento a scendere in seguito allo stupro) e che si impigrisce nella classicità delle scene in interno, con il rischio – agevolato dalla recitazione di buona parte del cast – di rendere il tutto troppo affine a un’estetica televisiva…

Emanuele Sacchi – mymovies.it

Difficile trovare una continuità negli ultimi lavori – e dunque anche nel nuovo Sunset Song, presentato alla 33esima edizione del TFF – per un regista come Terence Davies che seppe partorire opere complesse come Voci lontane… sempre presenti, se non in un senso antropologico della storia patria, una ricerca delle radici della società, il progetto di ricostruire una memoria storica collettiva nazionale attingendo a un passato non lontano e sempre presente del Regno Unito; se non il dramma femminile, l’affare di donne, che si avvicina al Mike Leigh di Il segreto di Vera Drake, in un mondo dove la donna è subalterna all’uomo come del resto già evidenziato in Il profondo mare azzurro. Come la protagonista di quel film era connotata da una carica autodistruttiva con i suoi numerosi tentativi di suicidio, in Sunset Song la madre non tentenna più di tanto e si toglie la vita, incapace di affrontare l’ennesima gravidanza imposta dal marito, l’obbligo di procreazione, portando con sé nella morte, novella Medea, anche i suoi bambini più piccoli.
Una voce lontana ma anche una “still life”, una natura morta, anche nell’inclinazione ultima del regista al calligrafismo e alla costruzione di immagini tableaux vivants della vecchia Scozia, la società rurale patriarcale comune nemmeno troppo arcaica. Quella raccontata dal romanziere Lewis Grassic Gibbon, dal cui omonimo romanzo è tratto Sunset Song, è la prima parte della trilogia A Scots Quair, considerato il capolavoro del Rinascimento letterario scozzese, scritto nell’aspra lingua inglese di Scozia, idioma restituito pienamente dal film.
Nell’abbracciare una saga famigliare nel passaggio da una generazione all’altra, nella piccola comunità con la sua esistenza collettiva isolata dal resto del mondo, con i suoi piccoli riti e cerimonie, Davies vuole rendere il ciclo stesso della natura, la vita che si perpetua, le stagioni dell’anno che sono le stagioni della vita. Una vita che dalla natura è condizionata, dalle coltivazioni, dalle fluttuazioni climatiche. E che nella sua struttura sociale sembra riproporre quelle stesse dinamiche biologiche primitive da cui è interdipendente. Una natura che sa essere maligna, Davies non manca di sottolinearlo. Ma la rottura di quello che sembra delinearsi come un equilibrio di felicità, faticosamente raggiunto, tra Chris e lo sposo, avviene per mezzo di un agente esterno – in un film che solo in pochi e limitati momenti esce da quella location – la guerra, la Storia, cui il marito finisce inevitabilmente risucchiato nonostante le sue resistenze.
Resistenze che si devono sì legate a motivi di codardia, quegli stessi che lo porteranno alla condanna, ma anche al legame che non vorrebbe recidere con i suoi campi, la sua terra. Quest’ultima situazione, l’arruolamento socialmente imposto al marito, il suo squilibrio mentale successivo e la tragica conclusione, è quantomeno giocato male da Davies. Dribblata, non risolta pienamente, la situazione dell’esecuzione è buttata lì senza nemmeno esplorare ragionamenti di antimilitarismo logico alla Orizzonti di gloria (in guerra se non si è uccisi dai nemici si è uccisi dagli amici).
Un’elegia pittorica contadina, dove la bellezza delle immagini naturali nasconde una società rigida, severa e crudele governata da un dispotismo patriarcale, una tragedia che si ripete di generazione in generazione con la guerra che fa precipitare tutto. Questo è il sunto dell’operazione di Davies per Sunset Song. Che ancora una volta ricrea quell’atmosfera da vecchia Inghilterra, una natura morta dei ricordi nazionali, muovendosi come sua abitudine sul terreno pittorico, da Vermeer ai fiamminghi…

Giampiero Raganelli – quinlan.it

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