Senza lasciare traccia

Debra Granik

La 15enne Tom vive clandestinamente con il padre nella foresta che confina con Portland, in Oregon. Limitando il più possibile i loro contatti con il mondo moderno, padre e figlia formano una famiglia atipica e molto unita. Un incontro casuale li poterà allo scoperto, ed entrambi saranno costretti a lasciare il parco per essere affidati agli agenti dei servizi sociali. Proveranno ad adattarsi alla nuova situazione, fino a che una decisione improvvisa li porterà ad affrontare un pericoloso viaggio in mezzo alla natura più selvaggia, alla ricerca dell’indipendenza assoluta. Un ritorno alla terra radicale, un manuale di sopravvivenza a fronte di un’ideale utopico. L’occasione per confrontarsi con un’America diversa e un cinema capace di raccontarla.

 

 

 

Leave No Trace
USA 2018 – 1h 48′

Will (Ben Foster), sofferente veterano dell’Iraq, vive insieme alla figlia di 13 anni Tom (Thomasin McKenzie) nella foresta di un parco pubblico nei pressi di Portland, Oregon. Sono organizzati per rimanere il più possibile lontani dalla società civile, ma sono destinati a finire nel sistema dei servizi sociali. Tom non si trova poi così male a contatto con il prossimo, ma Will non ce la fa proprio. La regista di Senza lasciare traccia è Debra Granik che con il precedente Un gelido inverno aveva lanciato una giovanissima Jennifer Lawrence. Sarebbe ingrato paragonare i due film così come sarebbe ingiusto accostare il debutto di Thomasin a quello travolgente di Jennifer. In ogni caso entrambi i film ruotano intorno a una giovane protagonista. Tom si trova in quel momento della vita in cui l’orizzonte fornito dal padre, anche se amorevole, non basta più. Ma non è solo questo. Tom deve anche realizzare che non può fare nulla per alleviare le sofferenze del padre. La perdita dell’innocenza, l’abbandono dell’infanzia è necessario per andare avanti. Come un suggerimento a un paese intero che deve darsi una svegliata visto che il suo sogno sembra svanito da tempo.

Piero Zardo – L’internazionale

Fuori dalle regole e fuori dal mondo: padre e figlia preadolescente vivono così, fra i boschi, riparati dagli alberi, accarezzati dalle felci. Chiamarli homeless suona erroneo, “io una casa ce l’ho, è il bosco” proclama con orgoglio Tom, la ragazza dai geloni sulle dita. Ma il destino riserva cambiamenti, nel bene e nel male, altrimenti che Bildungsroman sarebbe. Di fatto, il lungometraggio numero due della talentuosa Granik (Un gelido inverno lo scioccante esordio con la deb Jennifer Lawrence) torna su quelle “tracce” (gli homeless) ma su territori e presupposti differenti, più concettuali e spirituali. Dal romanzo My Abandonment di Peter Rock, un racconto intimo e universale, eterno ma attualissimo per l’America degli outcast contemporanei. Al centro è la voglia di libertà in quanto tale, il bisogno di fuga (da se stessi) ma anche di radici, con l’inevitabile contraddizione che questo comporta. Un film che lascia un bel sapore nell’anima.

Anna Maria Pasetti – Il Fatto Quotidiano

…il film di Debra Granik non solo lascia traccia, ma è addirittura memorabile. Dopo otto anni la regista candidata all’Oscar per Un gelido inverno torna dietro la macchina da presa per raccontarci una storia che vede nuovamente protagoniste delle persone ai margini della società. Lontani dall’American dream e dai grattacieli delle grandi metropoli siamo immersi ancora una volta nell’America della provincia, quella dimenticata, che raramente si vede sul grande schermo. Con il film precedente avevamo scoperto la zona montuosa del Missouri, nel cuore degli Stati Uniti, questa volta siamo catapultati in un altro remoto angolo dimenticato da Dio, in mezzo a un bosco che si trova alle porte di Portland in Oregon, in un accampamento isolati dal mondo dove vivono un padre (Ben Foster) e una figlia di nome Tom (la bravissima australiana Thomasin McKenzie). Lui è un veterano della guerra in Iraq affetto da PTSD (il disturbo da stress post-traumatico), argomento che già la regista aveva trattato in Stray Dog su un veterano del Vietnam. Lei ha tredici anni, ma è molto più matura della sua età. Entrambi vivono nel loro piccolo microcosmo lontani dalle tecnologie e dalle relazioni, immersi nella natura, alla Into the wild di Sean Penn per intenderci. È quello il loro modo di vivere, libero e senza legami, se non il loro.
Se non che (la storia vera da cui è tratto il film è divenuta una specie di leggenda nell’area di Portland, ma la pellicola è anche tratta dal libro di Peter Rock My Abandonment) un giorno, dopo quattro anni, vengono trovati nella riserva naturale e saranno costretti a lasciare il parco per essere affidati agli agenti dei servizi sociali. Proveranno ad adattarsi alla situazione. Per assurdo -beffardo il destino- lui per lavoro dovrà disboscare i pini per poi venderli come alberi di Natale. Ma come può un pino che cresce rigoglioso nel bosco trasformarsi in un albero di natale, chiuso in un appartamento con tanto di lucine? Allo stesso modo lui non ce la fa. E scappa verso una natura ancora più selvaggia. Verso la sua natura. Che però non è la stessa di sua figlia. È lì che il loro rapporto inizia a vacillare. Tom è stanca di scappare e in parte è attratta dalla civilizzazione. Vorrebbe fermarsi. La simbiosi finisce. Il loro microcosmo autosufficiente si spezza e si separano l’uno dall’altra. Con sofferenza, ma con amore. Proprio come ogni figlia da ogni padre. Solo in questo modo Tom potrà affermare non solo una propria identità, ma anche quella libertà (tanto agognata da entrambi nel loro modo di vivere) che solo la vera crescita può veramente dare.
Senza lasciare traccia diventa così una bellissima storia universale. Il tutto raccontato con linguaggio semplice e toccante allo stesso tempo e reso ancor più bello da un’interpretazione da applausi di Thomasin McKenzie, che regala al suo personaggio un’incredibile intensità. Una brava giovane attrice, come Jennifer Lawrence, altra rivelazione in qualche modo scoperta sempre dalla Granik.

Giulia “Chanteclair” Lucchini – cinematografo.it

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