Adriana, anatomopatologo a disagio coi vivi, incontra Andrea, un giovane uomo che la seduce in una notte di passione (senza veli). intera, appassionatamente. Adriana è travolta, finalmente viva e al risveglio gli sorride e dice sì al primo appuntamento. Ma Andrea a quel rendez-vous romantico non si presenta. È l’inizio di un’indagine poliziesca ed esistenziale che condurrà Adriana nel ventre di Napoli e di un passato, dove cova un rimosso luttuoso. Cupo come un mystery e debordante come un mélo, Napoli Velata è un film turgido che non nasconde i modelli alti (Hitchcock) e ambisce a fare di Napoli lo specchio incandescente della passione.
Italia 2017 – 1h 53′
Si comincia con la messa in scena en travesti di una «Figliata dei femminielli», rituale di rinascita e metamorfosi che fa scattare nell’austera anatomopatologa Giovanna Mezzogiorno la molla, ricambiata con lo stesso fuoco, di un’incandescente passione per lo sconosciuto Alessandro Borghi. Per qualche ragione, forse perché cornice più neutra a livello personale, Napoli velata ha permesso a Ferzan Ozpetek, assai meglio di Rosso Istanbul, di condensare i fantasmi del suo mondo poetico.
E di fantasmi davvero si parla in questa pellicola che molto rievoca le atmosfere di Magnifica presenza: fantasmi del passato che, riattivati da un trauma nel presente, perseguitano la Mezzogiorno, confinando la sua mente in un confuso limbo fra fantasia e realtà, regno dei vivi e dei morti. A tratti impacciato nello sviluppo del racconto, il film raggiunge le punte più dense e coinvolgenti ogni qualvolta la protagonista, nel suo percorso dal buio alla luce, entra in speciale simbiosi con la Napoli pagana, orientale, barocca, sotterranea che attraversa, quasi si trattasse di due paesaggi di mistero, illusione e dolore allo specchio.
Alessandra Levantesi Kezich – La Stampa
…Protagonista dichiarata del film, Giovanna Mezzogiorno deve vedersela con Napoli, che assurge in primo piano col suo potenziale esplosivo, la sua straordinaria energia linguistica, le sue contraddizioni interne. Così la religiosità popolare, nelle sue forme più vitalisticamente esasperate (culti, icone, maschere, santini), in Napoli Velata si coniuga con un sostrato pagano che accorda in modo ribaldo le tradizioni folcloriche antiche e moderne (la ‘sibilla’ col telecomando, l’utero sezionato nella controspezieria della Farmacia storica degli Incurabili). Mescolando i generi ma privilegiando l’approccio plastico a tutto tondo del melodramma, Ferzan Ozpetek traduce la forza dirompente della città in una struttura narrativa che intreccia fili in profondità. E in quella profondità Napoli Velata sprofonda per sciogliere un trauma consumato ai ‘piani alti’ e nella prima sequenza, perno fra passato e presente. Al cuore del film c’è una conversione che si genera ancora una volta dall’interazione fra una perdita e un incontro. In Le fate ignoranti il personaggio di Margherita Buy cambia vita quando perde il marito e incontra l’amico omosessuale del consorte defunto, in La finestra di fronte il personaggio di Giovanna Mezzogiorno muta radicalmente la maniera di sentire il mondo quando perde l’infatuazione per il dirimpettaio di Raoul Bova e incontra l’antica saggezza pasticciera di Massimo Girotti, in Cuore Sacro il personaggio di Barbora Bobulova ha perso (da tempo) la madre senza mai elaborare il lutto e va in crisi quando incontra una ragazzina randagia e ribelle.
In Napoli velata perdita e incontro coincidono in uno spazio che si fa sempre più fantasmatico e labirintico, dentro una geografia sotterranea (metropolitana, laboratori, gallerie, botteghe), instabile e cadaverica, che dialoga con una geografia superficiale, barocca, scenica, vitale. Lungo il confine che invita all’infrazione, Ozpetek introduce un rito pagano (“La figliata dei femminielli”), una performance antropologica che partorisce un bimbo priapesco e concepisce la passione di Adriana e Andrea.
Andrea inietta nella vita di Adriana il fuoco divorante di un sentimento che resta allo ‘stato nascente’ ma avvia l’odissea (sessuale) del personaggio. Sarà l’inchiesta a rivelare poi la natura segreta dell’eroina, i suoi segreti e la sua sessualità risvegliata. Inscritto nel quadro di un’indagine poliziesca, ma il film non è mai realmente interessato al suo intrigo, Napoli Velata coglie e rende visibili i flussi emotivi della sua protagonista e le correnti passionali che legano i personaggi agli amanti. Al ruolo virile e fragile di Alessandro Borghi replica il corpo assediato di Giovanna Mezzogiorno, daccapo musa di Ozpetek e daccapo soggetto scopico desiderante e immaginifico.
Ma a questo giro di vite alla sua protagonista non basta guardare al di là della strada per compensare con l’immaginazione la vita in cui permane. Sensuale e sensibile, la messa in scena riflette i vacillamenti percettibili della protagonista e tutta l’urgenza dell’attrazione carnale. Un tumulto che Adriana non può evitare, figuriamoci dimenticare….
Marzia Gandolfi – mymovies.it
Napoli e Ozpetek. Un bell’incontro sulla carta perché sia la città, sia il regista sono allergici alle definizioni univoche e costringono a non ricorrere alle etichette prestampate. Vorremmo, però, subito pregare che si rivolga altrove chiunque pensi di scovare in queste righe un riscontro al grottesco ping pong tra gli amatori e gli odiatori del brand Gomorra. Secondo noi, infatti, in Napoli velata non c’è niente che evochi una sorta di arrivano-i-nostri contro i loschi mercanti di finzione ovvero, per essere ancora più schietti, il fatto che Ozpetek abbia scoperto e si sia innamorato della Grande Bellezza partenopea fa onore alla sua sensibilità d’uomo e di professionista, ma conta molto poco sul piano della qualità di questo mystery impigliato nell’ambiguità delle menti e dei corpi. (…)
Ecco, dunque, la scala elicoidale di palazzo Mannajuolo che introduce il nodo psicanalitico primario del film mirato a sciogliere un balletto di fantasmi che, al posto del terrore mortuario, spargono in parti uguali nel mondo dei vivi avidità segrete e sentimenti repressi. Sul rapinoso incontro di sesso tra l’esacerbata Adriana e lo sfrontato Andrea molto si è detto e scritto, ma in realtà non si può dire altro che risulta abbastanza credibile proprio per una delle doti stabili di Ozpetek, ossia quella di anticipare il lavoro del montatore selezionando con elegante pertinenza i punti di vista della cinepresa. L’innesco preordinato dalla sceneggiatura cofirmata con gli affiatati Romoli & Santella, cerca di fare tracimare la suspense dopo la scoperta alla morgue da parte della protagonista –che di professione fa il medico legale- di un cadavere quasi irriconoscibile ma capace di farla sprofondare in un’allucinazione progressiva devastante, un andirivieni tra realtà e incubo che si dirama lungo tutta la topografia della Napoli nobilissima. Ed è qui che il reticolo melo-barocco comincia a complicarsi il cammino, innanzitutto introducendo un coro di personaggi –in maggioranza femminili- guidato dall’amico-confidente Pasquale a cui Peppe Barra conferisce i consueti tratti esorbitanti (è sua, però, la battuta più autolesionistica del film indirizzata ai tormenti di Adriana: “me pare proprio na’ telenovela”): sia pure tecnicamente adeguate, infatti, le presenze della Bonaiuto, la Ranieri, la Calzone, la Sastri non diventano mai risolutive o pregnanti a causa dei difetti di scrittura, la vaghezza del thrilling, la pretestuosità dei caratteri e soprattutto l’accumulo incontrollato – quasi in forma di numeri della Smorfia – dei rituali pittoreschi (la figliata dei femminielli, la tombola vajassa ecc.: per molto meno Malaparte fu crocefisso dall’intellighenzia letteraria) e delle locations. Farà certo bene a Napoli – ma sembra che l’attuale boom turistico non ne senta un gran bisogno – il vorticoso viavai degli sfondi che vanno dal palazzo Sanchez de Leon al chiostro di San Martino, dal Museo Archeologico alla Farmacia degli Incurabili, dalle stazioni della nuova metropolitana alla Cappella Sansevero, ma non fa bene alla compattezza del film che si smargina, s’illanguidisce, si deforma consentendosi persino – ed è un vero peccato – la strizzata d’occhio sorrentiniana della santona in trance accudita dalla nana o la scenaccia kitsch del sesso consumato su un tappeto di fotografie. Sembra, insomma, che l’esoterico percorso tra simboli e metafore, case impregnate dalle vergogne del passato e aperte su giardini labirintici abbia saltato qualche passaggio narrativo e anche per questo non riesca ad accendere il pathos della carnalità liberatoria; anche perché, dispiace potere apparire indelicato, la Mezzogiorno è un’attrice tutta di testa che in questo ruolo – forse anche per colpa di come è truccata e fotografata – non risulta carismatica e l’aitante Borghi sembra intimidito dalla suggestione hitchcockiana dell’”uomo che visse due volte”. Il velo che ricopre lo slancio poetico di Ozpetek, peraltro lodevole sul piano dell’accuratezza formale, è in fondo lo stesso che spesso penalizza il cinema italiano: quello delle pretese, del volere imprimere a tutti i costi il bollino dell’autore, del trincerarsi nell’artisticità snobbando la logica del genere; quel tipo di presunzione, per fare solo un esempio, a cui non avrebbe osato mai ricorrere un vecchio film molto simile, ma di modesta fattura artigianale come Fantasma d’amore di Dino Risi.
Valerio Caprara – Il Mattino