1985. Pochi mesi dopo il terremoto Città del Messico si sveglia con la notizia del furto più spettacolare della sua storia, quello di oltre 160 pezzi preispanici al Museo Nazionale di Antropologia. Un crimine che è visto come un grave insulto per il paese e che lascia spiazzati i responsabili, due studenti in veterinaria che, affrontato con abilità e “leggerezza” il colpo, si trovano invischiati in una rocambolesca avventura per piazzare dei tesori così famosi e riconoscibili. Dalle rovine Maya di Palenque alle spiagge di Acapulco Alonso Ruizpalacios (Güeros) rivolge ancora una volta la sua macchina da presa su una generazione disorientata, senza meta e ideali.
FESTIVAL DI BERLINO: Orso d’argento per la miglior sceneggiatura
Museo
Messico 2018 – 2h 8′
Alonso Ruizpalacios, messicano classe 1978, aveva già stupito tutti con la sua opera prima, Güeros del 2014, e continua a sorprendere con la sua seconda fatica, Museo, presentata in concorso all’ultimo Festival di Berlino, dove ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura (firmata dallo stesso regista insieme a Manuel Alcalá). Al centro della trama c’è la vera storia del celebre furto al Museo Nazionale di Città del Messico avvenuto nel 1985, a cui il regista si è ispirato per condurre un ragionamento sull’identità nazionale messicana, sulla cultura storica del Paese e su quanto queste possano ancora contare nel mondo di oggi. Protagonisti sono due amici di vecchia data, inesperti di furti, che decidono di mettere a segno questo grande colpo. Sorprendentemente, riescono nella loro impresa, ma non hanno tenuto conto dei problemi che potrebbero incontrare nel rivendere la refurtiva e delle gravi conseguenze del loro gesto.
Ragionando su realtà e finzione in modo curioso, e riuscendo anche a smorzare i temi di fondo con una buona dose di ironia, Ruizpalacios firma un lungometraggio divertente e incisivo, dotato di un ottimo ritmo, soprattutto nella prima parte, e forte di diversi guizzi registici degni di nota. Nel corso della pellicola viene cambiato spesso registro (dal film di rapina al dramma familiare, passando per la commedia) e queste continue variazioni rendono la visione ancor più appassionante.
Perfetto esempio della freschezza dello sguardo di Ruizpalacios è la sequenza conclusiva, inattesa e sorprendente, anche semplicemente per come è stata pensata. Notevole prova di Gael García Bernal nei panni dell’organizzatore della rapina, ma anche il resto del cast non è da meno. La sensazione è che Ruizpalacios possa presto diventare uno dei nuovi nomi di punta di una cinematografia, quella messicana, in grande forma, come dimostrano gli enormi successi ottenuti negli ultimi tempi da nomi come Alfonso Cuarón, Guillermo del Toro e Alejandro González Iñarritu.
Andrea Chimento – cinematografo,it
Alla base di Museo c’è un film di rapina, la storia di due ragazzi non molto svegli che per avere un domani migliore ma soprattutto per fare qualcosa della loro vita decidono di rapinare un museo e vendere il frutto della rapina tramite un ricettatore loro amico. Non sono ladri di professione e si vede. La prima metà del film arriva fino alla fine della rapina, il resto ha a che vedere con quel che accade dopo, quando la merce è in loro possesso, i media non parlano d’altro e bisogna venderla a qualcuno. Museo ha una vera e autentica perversione per il sonoro. Tutto il sonoro e in primis lo score, fenomenale perché non è quel che ci si aspetterebbe. Museo ha la colonna sonora di un melò hollywoodiano degli anni ‘50 e in certi punti riesce a trasformare la trama in una storia d’amore impossibile tra un uomo e i suoi sogni di grandezza, osteggiata dal mondo circostante (che lo ritiene giustamente un idiota) e dalla società. Ma la vera perversione si attua con i rumori di scena. La loro registrazione è curata ad un livello di maniacalità che gli consente di prendere il primo piano. Museo è un film di rumori, in cui è possibile sentire un gatto fare le fusa forte quanto i dialoghi, e in cui ogni cosa che il film intende fare (eccitare, spaventare, caricare, mettere tensione o mettere in scena i sogni) la fa con il sonoro. Ovviamente la lunga scena della rapina è l’apoteosi di tutto ciò. La penetrazione, il delicato furto, la messa fuori uso degli allarmi e tutto il resto dell’armamentario di un museo anni ‘80 (epoca in cui si svolge il film) è una festa di piccoli rumori nel silenzio tombale di un museo vuoto, usati per alimentare la paura della scoperta.
Dopo quel furto come un Fellini allucinato invece che sognante, Alonso Ruizpalacios massacra i suoi personaggi di apparizioni, visioni, paure e il confronto con un mondo esterno che di colpo diventa ostile. Tutto è ostile. La famiglia, i rumori, il telegiornale, ovviamente la polizia e anche quelli che prima sembravano amici quando capiscono che il furto è avvenuto e i due hanno la refurtiva diventano nemici. In fuga con un malloppo più grande di quello che non credevano, e soprattutto più a cuore al paese (sono tutti artefatti archeologici), più discusso in televisione e dalle persone, i due cretini che pensavano di diventare ricchi fuggono ad Acapulco per chiudere l’affare.
Nonostante Museo sia un film indubitabilmente moderno per le soluzioni e per il ritmo compassato ma mai noioso, si percepisce un desiderio fortissimo di cinema classico. Gael Garcia Bernal guida il duo con una tensione che ricorda le sue interpretazioni più famose, con una nervosissima tendenza a sudare, ed è magistrale nell’essere il cervello di una coppia di cretini senza mai sconfinare nella macchietta. Con degli occhi ingenui e luminosi ma anche una puzza di periferia e cialtronaggine che non riesce mai a levarsi di dosso, è contemporaneamente condannabile e amabile. In questa storia vera, che ci viene raccontata senza risparmiare crudeltà ai veri interpreti, lui è più finto del vero.
Contrariamente ad ogni altro film di rapina Museo non è l’esaltazione di un’intelligenza ma la celebrazione di una stupidità che sogna in grande, che riesce a mettere a segno un colpo quasi per caso, con una quantità di fortuna indecente, e che poi non sa che fare con il tesoro che si trova per le mani. La sua grandezza sta nel condannare e al tempo stesso amare questa stupidità che viene dall’ignoranza e dalla marginalità. La sensazione è che i due siano dei reietti del sistema, e che anche dopo la rapina il loro status gli impedisca di aspirare alla grandezza ma anzi li condanni a non fare nulla del malloppo. A quel punto, finita la rapina e iniziata la fuga, Museo smette di essere cinema di rapina e per chiudere il proprio cerchio, cioè per compiersi come film, imita lo stile del cinema indipendente sudamericano: vaga cercando una risposta negli ambienti, fa in modo che la noia e la stanchezza prevalgano dentro ai personaggi fino al litigio e poi si spegne. Ma fino a quel punto è una gran corsa davvero, con uno dei migliori scambi di dialoghi dell’anno (quello con il possibile cliente della merce).
Gabriele Niola – badtaste.it