Grazie all’accesso esclusivo al materiale privato di Orson Welles, Mark Cousins indaga una leggenda: disegni, schizzi e bozzetti che ci dicono di lui più di quanto si possa pensare. Appunti di vita visti attraverso i suoi occhi, disegnati con le sue mani, dipinti con i suoi pennelli. È un inaspettato riscoprire ancora volta la genialità di uno dei più brillanti autori del Ventesimo secolo.
The Eyes of Orson Welles
Gran Bretagna 2018 – 1h 55′
What’s in the box? Cosa c’è nella scatola? si chiede Mark Cousins cineasta e studioso di cinema, già autore della sua nota (e preziosissima) rilettura personale della storia del cinema in The Story of Film (2011). Grazie all’accesso esclusivo al materiale privato di Orson Welles, uno dei cineasti i più importanti della storia del cinema, trova in una scatola, per l’appunto, i disegni del regista di Quarto Potere (1941). Possiamo raccontare la sua storia in maniera differente? si chiede il regista irlandese. Rivediamo tutta la biografia di Welles a partire dalla sua infanzia fino alle sue produzioni più recenti, attraversando le varie arti o attività in cui si era cimentato. Il tutto riletto e inframezzato dalla nuova scoperta di questi disegni, schizzi e bozzetti, che ci dicono di lui più di quanto di primo acchito potremmo pensare.
Cousins è molto bravo a esaminarne il tratto e a collocarli nel tempo e nello spazio, a ricostruirne una storia, un racconto dietro, tenendo insieme tutto e strutturando in tal modo il film come una rilettura stessa del personaggio attraverso le sue opere, questa volta non più solo cinematografiche ma anche “pittoriche” (quand’anche teatrali e radiofoniche). Orson in Finlandia, poi Dublino, il periodo della radio, del teatro, del cinema. Il maccartismo, gli amori (uno su tutti quello per la divina Rita Hayworth). Cousins è meticoloso e non lascia fuori nulla dal suo racconto: compone così un film debordante, bulimico, quasi ossessivo, passionale. Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio: questo è un film per appassionati di cinema, per chi lo ama, per chi se lo divora, per chi ne esplora le sue trame, le sue sottotrame, i suoi innesti, i suoi risvolti. Di chi conversa col cinema, chi costruisce continuamente con il cinema e la sua storia (e con le biografie di chi questa storia l’attraversa, la pervade) una fitta rete dialettica, un continuum in cui la propria vita si mescola con quella degli autori preferiti, fino a diventarne quasi parte integrante (…)
La forma è quella della lettera inviata nell’aldilà a Orson (così lo appella Cousins, quasi come un vecchio amico o un mentore). Il film si compone di molteplici riprese della città. In particolare: New York (Manhattan), Chicago e Dublino. Vedute della metropoli con cui il regista irlandese, abile conoscitore dello stile cinematografico di Welles, lo omaggia riproponendo inquadrature sghembe o che solcano l’immagine con linee prospettiche o, ancora, che esaltano la profondità di campo (…) Verso la fine del film Orson prende la parola – una trovata degna di un suo film – e naturalmente spariglia le carte, confonde, deride il suo nuovo biografo, cercando quasi di dimostrare che tutta la lettura condotta fino a quel momento dal documentarista sia quasi o del tutto inconsistente.
Raramente sul grande schermo il racconto di tutta una carriera artistica è stato narrato con una tale passione e un tale coinvolgimento, senza rinunciare a un ineccepibile rigore storico…
Tommaso Moscati – mymovies.it