Un impietoso ritratto di Charlie Manson e della sua contagiosa follia. Lo chiave di lettura è affidata a Karlene Faith, un’assistente sociale alla quale sono affidate tre giovani assassine della sua setta, condannate all’ergastolo. L’eccidio di Cielo Drive, in cui fu brutalmente uccisa Sharon Tate (moglie di Roman Polanski) fu un dramma che sconvolse l’America e il mondo e lo sguardo di Mary Harron indaga con sgomenta umanità sulle aberranti dinamiche della comunità “femminile” plagiata dal carismatico Charlie: quale il suo potere sulle giovani adepte? Come riuscì ad annullare la loro personalità e a trasformarle in brutali omicide?
Usa 2018 (104′)
VENEZIA – “9 agosto 1969: il giorno che il ‘68 finì”. Con questa frase, a caratteri cubitali su fondo nero, si apre Charlie Says (Dice Charlie), il nuovo film della regista Mary Hatton, (American Psycho, Ho ucciso Andy Warhol) presentato nella sezione Panorama.
È la data dell ‘eccidio di Cielo Drive, perpetrato da Charlie Manson e dalla sua “family”, uno dei più efferati della storia americana, famoso anche perché una delle vittime era l’attrice Sharon Tate, moglie del regista Polanski, incinta di 8 mesi. Sarebbe questo il momento in cui il movimento hippie e libertario diffusosi dagli Stati Uniti in tutto il mondo, portato agli estremi e interpretato da uno psicopatico delinquente seriale come il Manson, arrivò ad ispirare un bagno di sangue e di follia. Ma non è la strage in se l’obiettivo della regista, bensì lo sforzo di capire e mostrare come tre giovani donne, Luno, Katie e Sandie, ragazze comuni, insofferenti della famiglia come tutte le adolescenti e desiderose di affrancarsi dagli ideali della American Way of Life, abbiano potuto trasformarsi in efferate assassine.
Lineare ed efficace l’espediente registico. Condannate in un primo momento a morte, come il loro mentore, le tre hanno avuto la pena trasformata nel carcere a vita, che stanno scontando nella prigione federale della California. Qui (siamo ormai nel 1972) la criminologa femminista Karlene Faith (ottima interpretazione quella di Merrit Wever) è incaricata di seguirle attraverso una serie di colloqui e interviste, per arrivare ad un percorso di autoanalisi e possibilmente di riabilitazione (non premiata, tant’è che dai titoli di coda apprendiamo che ad oggi una è morta come Charlie nel 2017 e le altre due sono tuttora detenute!).
E la realtà che traspare dai racconti delle ragazze e soprattutto dai continui flashback che ritraggono il quotidiano della “family”, oltre a costituire la parte migliore del film, è assolutamente sconcertante. Il sistema istaurato da Manson era estremamente efficace. Con la scusa della spontaneità e del rifiuto delle regole borghesi, le ragazze (deboli, insicure, appena arrivate a Los Angeles, desiderose solo di considerazione e, perché no, d’amore) erano sottoposte ad un vero e proprio lavaggio del cervello. Devono assumere un altro nome, tagliare ogni contatto coi genitori e l’ambiente di provenienza, identificarsi (rinascere) come membri della nuova “famiglia”, rispettandone le regole ispirate al più gretto maschilismo. Tutte devono dimostrare di essersi liberate dalle convenzioni borghesi facendo sesso con Charlie (non con gli altri maschi della comunità se non col suo permesso) e però sbrigare anche le faccende domestiche, servire a tavola dando la precedenza agli uomini eccetera. Il tutto naturalmente condito ed esaltato dall’uso di droghe d’ogni tipo.
L’incredibile è che, almeno per la prima parte del film, le tre non sembrano rendersi conto di cosa e come è accaduto: Charlie Says, lo diceva Charlie, continuano a ripetere all’infinito. Nelle scene in flashback è interessante anche vedere l’evoluzione del personaggio Manson (Matt Harron, ex Doctor Who, assolutamente a suo agio nella parte ), nella quale sembra aver avuto una parte importante anche la delusione di non essere riuscito a diventare
È infatti provato (e la Harron ce lo mostra in una delle migliori scene del film) che c’era stata una visita al ranch di Dennis Wilson, batterista dei Beach Boys, allora all’apice del successo, disposto a procurargli un contratto discografico, conclusasi però nel nulla di fronte alla evidente incapacità e follia del soggetto. Ma tant’è; Charlie entra nel personaggio, e accelera; non bisogna solo rifiutare il lavoro, il materialismo, il mondo di fuori, della gente “normale” ma anche cercare di distruggerlo, uccidendo i “pigs” (come si troverà scritto col sangue sui muri delle ville assaltate).
Forse non un grande film, ma senza altro un documento, una ottima ricostruzione con una prospettiva originale, dalla parte delle donne… E non è forse questo l’anno di #Metoo ? Adesso resta solo da aspettare il film di Tarantino, previsto per la prossima primavera.
Giovanni Martini – MCmagazine 47