Giappone 2017 – 1h 44′
VENEZIA – In chiusura di questa 74° edizione della Mostra è stato presentato Fuori Concorso l’ultimo film del grande regista giapponese Takeshi Kitano; Kitano e l’altro Big del cinema del Far East, John Woo, con i loro ultimi lavori, non hanno deluso le aspettative di chi ama abbandonarsi alla sicurezza che certi film “di genere” sanno dare, riuscendo anche a far dimenticare la noia provocata dalla visione di molte pellicole, fatte di storielle emblematiche raccontate in modo puramente cronachistico.
Entrambi settantenni, entrambi con una crime-story, genere in cui sono giustamente idolatrati maestri, hanno presentato due film che si possono definire “classici” della loro cinematografia, ridondanti di citazioni, adrenalina e gusto del divertimento. Ma le analogie finiscono qui in quanto il romanticismo manierato e coreografico di John Woo (Manhunt) trasuda il piacere del racconto, mentre il formalismo geometrico e autoironico di Kitano vira al malinconico, al crepuscolare.
Dopo l’anarchia dissacratoria del primo capitolo (Outrage 2009) e l’atmosfera sempre più funerea e desolata del secondo (Outrage Beyond 2012) in questo terzo episodio conclusivo della trilogia yakuza ritroviamo Otomo-Takeshi, il gangster cui Beat Kitano presta il suo volto (sempre più maschera kabuki) in Corea, dove, sopravvissuto alla guerra tra le famiglie mafiose Sanno e Hanabishi, lavora per un faccendiere, mr. Chang. Quando un incidente diplomatico causerà tensione tra Chang e gli Hanabishi, si scatenerà una feroce lotta per il potere e Otomo dovrà tornare in Giappone per sistemare le cose una volta per tutte.
Il film comincia in una atmosfera rilassata, in cui si parla di pesca e di cibo, davanti a un mare calmo, come calmo è l’andamento che caratterizza lo sviluppo della storia, che prevede pochi picchi di climax. Con un Beat Takeshi quantomai ieratico e stanco, la stessa espressione con cui arriverà controvoglia alla sparatoria-mattanza finale, che tutti si aspettano, ma che si consuma solo alla fine della storia. In questo film infatti Kitano lavora di sottrazione, giocando più sulla tensione, sulla narrazione degli intrighi e sull’ironia, che sulla violenza, lasciata per lo più nel fuori campo, per concentrarsi in realtà sul vuoto e la tristezza che vi stanno dietro.
In Outrage Coda c’è tutto il cinema di Kitano: situazioni, parole, codici, riti e miti dello yakuza movie, segni però essicati e svuotati, che rappresentano quest’assurdo mondo alla deriva, sempre più bloccato e condannato al riciclo perenne, un mondo senza più onore né dignità. Le lunghe carrellate laterali e i campo contro campo con cui Kitano riprende gli interminabili e inutili dialoghi tra i mafiosi rimandano a un mondo e a un cinema del passato, che ormai non c’è più. Fino a quando irrompe Otomo/Takeshi, il cui volto segnato impone una frontalità esplosiva, spalancando una porta di dialogo improvvisa verso lo spettatore.
Otomo, il gangster fuori moda, che non ha più una casa, non media tra le fazioni rivali, ma irrompe sulla scena, seminando la morte, portando il caos del cinema contemporaneo nell’inerzia delle cose.Dopo la fine di un’epoca, dopo l’ultima “sonatina” possibile, dopo il nero dell’inquadratura finale, la maschera struggente di Beat Takeshi rimane per un po’ impressa nella retina dello spettatore, che avrebbe desiderato un finale diverso, con due vecchi amici a ridere e pescare di fronte al mare.
Cristina Menegolli – MCmagazine 43