USA 2017 – 2h
VENEZIA – Ci sono film che sembrano fatti apposta per fare arrabbiare tutti. Darren Aronofsky non è nuovo a questo genere di esperienza: nel 2006 portò a Venezia un film, The Fountain, dalle mille traversie produttive, comprese illustri defezioni dal cast che ne avevano trascinato per anni l’ultimo ciak. Risultato: un’opera di frastornante ed inaudita presunzione, che si illudeva di fare poesia con un tripudio di immagini digitali inondate da onnipresenti musiche di Clint Mansell.
Poi, la resurrezione: proprio a Venezia nel 2008 viene ammesso al Concorso The Wrestler, che a sorpresa vince addirittura il massimo premio. In quel film c’è una traccia autobiografica in filigrana, in cui Aronofsky sembra voler fare ammenda per tutto ciò che ha osato (e miseramente fallito) nel film precedente. Il successivo Il cigno nero è un autentico successo su tutti i fronti: di pubblico, di critica, e di stima dell’industria (come ci dicono le plurime candidature all’Oscar). Ma evidentemente l’ego di Aronofsky non va alimentato, e il blockbuster successivo, Noah, è di una spettacolarità talmente grossolana e stucchevole che è difficile rintracciarvi una personalità di sguardo, se non nel modo dozzinale in cui riesce a disfarsi nell’ultima mezz’ora.
Ed arriviamo finalmente a questo mother! (rigorosamente minuscolo e con esclamazione), preceduto da una campagna stampa che ha fatto leva sullo shock: gli scatti di Jennifer Lawrence che offre tra le mani il suo cuore pulsante fanno il giro del mondo. Mentre scriviamo, il film è appena uscito in USA, raccogliendo incassi non esaltanti, ma soprattutto il poco invidiabile primato di una F di Cinemascore, ossia il peggior voto (ottenuto solo da 19 film in 40 anni) di un organismo che misura il gradimento del pubblico alle anteprime. Alla proiezione in Concorso il film ha raccolto bordate di fischi ed un odio cieco e assoluto da parte della stampa. Insomma, mother! sembra fatto apposta per sparire nell’ombra subito dopo la sua visione, e ci si potrebbe chiedere cosa possa aver spinto produttori e autore a portare in giro per festival (dopo Venezia, c’è stata la presentazione a Toronto) una pellicola in grado di scatenare reazioni tanto violente.
Eppure forse siamo di fronte ad un film che va razionalizzato, e va fatto sedimentare nella memoria. Forse ogni tanto vale la pena ritornare sui propri giudizi, anche quando sono estremi. Dal punto di vista della forma visiva, l’ultimo lavoro di Darren Aronofsky entusiasma nei suoi primi tre quarti: lui e lei, lo scrittore tormentato dal blocco creativo e la sua giovanissima moglie che pende dalle sue labbra, chiusi in una casa isolata in una radura tra i boschi, hanno una vita perfetta ma monotona. Forse è proprio questa monotonia l’origine del blocco di lui. Un giorno bussa alla porta uno strano individuo, che si rivela ben presto essere malato, e un grande fan del padrone di casa. Lei, la moglie, ha ridato vita allo scrittore, tirando su la casa da un cumulo di macerie, dopo che era stata distrutta da un disastroso incendio. Ma lo scrittore sembra concentrato solo sul suo blocco creativo, e quando l’estraneo invadente e impiccione si intrufola in casa, portandosi dietro presto la moglie (ma è solo l’inizio), scopre che questo turbamento è in realtà il risveglio da un torpore troppo lungo, e che è necessario essere sconvolto per tornare a creare.
Non tutto il film procede sugli stessi binari: nell’Eden della casa perfetta, in cui abita la coppia perfetta, qualunque elemento estraneo è portatore di entropia. Usiamo la parola Eden non a caso, poiché il modo migliore di leggere mother!, per razionalizzarne la portata disturbante e cercare di carpirne il senso, è proprio vederci una rivisitazione biblica sacrilega in cui lo scrittore è il Creatore, la moglie la Natura (naturans?) e il duo di disturbatori sono Adamo ed Eva. Di più non si può dire, per non addentrarsi in spiegazioni ardite, e sicuramente anche questa lettura non calza a dovere. In certi momenti di mother! regna un tale stato di caos assoluto che sembra non esserci più nessuno dietro la macchina da presa, ed è probabilmente impossibile asserire, con qualunque argomentazione, che siamo di fronte ad un bel film, o anche ad un film compiuto. Eppure si tratta di un’opera che in un modo o nell’altro scuote, magari repelle, e lo fa dopo aver affascinato. Un raro caso di visione che va esperita anche per andare incontro al disgusto, per cercare di sondare le ragioni di una connaturata, ma sottilmente affascinante imperfezione. Di questi tempi, come risultato non è poi da disprezzare.
Pietro Liberati – MCmagazine 43