Il giovane domatore di leoni Tairo è scontento della sua vita. La perdita di un talismano gli è di pretesto per mettersi in viaggio attraverso l’Italia alla ricerca di Arthur Robin, carismatico Mister Universo degli anni ‘50, a cui vuole chiedere in regalo un nuovo portafortuna.
Uno sguardo amaro su un mondo, quello circense, che sta scomparendo, ma anche uno sguardo fiducioso sull’umanità di quanti vivono, solidali all’interno di quell’ambiente.
Il film infatti sa andare oltre la problematica “chiusa” della crisi del circo e si apre alla crisi esistenziale di un giovane che non trova più sicurezza nel suo lavoro, che si sente messo all’angolo dalla sfortuna ma che sa trovare come vero punto di riferimento gli amici, i genitori, la sua ragazza, fiduciosa e intraprendente. Un film che documenta la vita di personaggi nel loro ambiente naturale (tutti attori non professionisti) ma che scivola senza soluzione di continuità nella fiction:, la naturalezza con cui le persone parlano e si comportano davanti alla cinepresa aumenta la sensazione di realtà e di vicinanza. Tairo e Wendy, come i loro amici, colleghi e parenti che incontriamo strada facendo, hanno una grande presenza scenica e non recitano se stessi, ma si limitano ad essere quello che sono, con i loro pregi e difetti. È questa spontaneità che conquista, ed è nella loro verità che anche le scene scritte sembrano – attraverso dialoghi spontanei e improvvisati – del tutto naturali.
MENZIONE SPECIALE FESTIVAL DI LOCARNO
Austria/Italia 2016 – 95′
Dalla coppia austroungarica Crovi-Frimmel (La pivellina l’ottimo biglietto da visita), ecco un appassionante tour nel mondo del circo fuori dal perimetro clown felliniano. Siamo con Tairo, giovane domatore di tigri in crisi di identità, depresso da Antonioni. Vuole ritrovare Mister Universo, ora irriconoscibile, uomo forte alla Zampanò (torna Fellini de La strada) che nel ‘57 piegò un pezzo di ferro regalandoglielo: e fu talismano. Quasi un documentario, popolato di piccole figurine dell’album del circo minore: paesaggi tristi periferici, vecchie tigri, roulotte scassate. Un viaggio verso il Nord con parentesi allegre (lo zio ex cantante) e l’amicizia dell’acrobata Wendy. Bello raccontare la nevrosi in ambiente rude, tra versi animali e strani versi umani, a volte non udibili.
Maurizio Porro – Il Corriere della Sera
Tairo è cresciuto e fa il domatore. Lo abbiamo incontrato quando aveva 13 anni, in quel film stupefacente che era La pivellina (2009). Lo ritroviamo a 20 anni dentro lo spazio angusto di una roulotte, che uno specchio cerca inutilmente di allargare, mentre guarda Il padrino in tv e si riempie i capelli di spuma. La sua vita è come quel vestito blu e rosso che gli sta un po’ largo e lungo di maniche. È la sua gabbia stretta con i suoi animali malconci, in fondo all’inquadratura, al centro della pista di un piccolo circo in decadenza.
Altro che documento o pedinamento o cinema mimetizzato tra le cose della vita. Questa è messinscena, e proprio per questo è vita e realtà. Come un ferro piegato, fortunato, che Tairo porta con sé da quindici anni (verosimilmente vero), che racchiude la sua storia e la sua identità, qualcosa che bisogna perdere per trovarla davvero, magari dentro il corpo lunare (malconcio anche quello) di una contorsionista col mal di schiena. Tizza Covi e Rainer Frimmel osservano quel mondo mentre lo raccontano (rigorosamente in pellicola). Lo raccontano mentre lo vivono insieme a Tairo Caroli, Wendy Weber e tutti gli altri, che mettono in scena se stessi, anzi, che portano la scena dentro la propria realtà. E poco importa se a volte percepisci l’imbarazzo, se noti lo scarto, se la libertà della vita senza sceneggiatura non diventa sempre verità.
Il bello di questo cinema non sta nella sua verosimiglianza, nel fatto che la “fiction” si inchini al “documentarismo”, ma nel modo in cui la realtà e il cinema si incontrano sul crinale della vita, che è un’emozione trovata e una metafora ricercata, è recita e improvvisazione, è un esercizio di consapevolezza. Fango, fatica, strade di periferia, litigi tra vicini per la corrente elettrica, fare spettacolo e pulire le gabbie, recitare e smontare il circo, uomini e animali che vivono insieme, rabbia, ignoranza, vitalità, orgoglio, la nostalgia per un’età dell’oro (del circo) mitizzata, la famiglia e gli affetti, la vita nomade, i tarocchi che dicono la verità, l’orango che ha recitato per Fellini, Celentano e Dario Argento, lo zio che canta Batticuore. «Prova a guardare la luna come la guarda un poeta». La meta del viaggio è Arthur Robin, il primo Mister Universo di colore (anno 1957), che a 87 anni è un uomo semplicemente splendido, innamorato, felice. Ecco il Graal. Ecco che trova un senso la strada che sembra scendere e invece è in salita (o viceversa). Il paradosso del tornare indietro per andare avanti (e viceversa). Del fare cinema mentre racconti la vita.
Fabrizio Tassi – cineforum.it