Boris e Zhenya stanno divorziando e litigano in continuazione, schiavi delle visite al loro appartamento messo in vendita. Entrambi stanno già pensando al futuro: Boris ha una relazione con una giovane donna che aspetta un bambino da lui e Zhenya sta uscendo con un uomo ricco che sembra pronto a sposarla. Nessuno dei due, però, sembra avere alcun interesse per il futuro di Alyosha, il loro figlio di 12 anni. Fino a quando quest’ultimo scompare… Un film che fotografa l’angoscia glaciale e disperata di una coppia che è emblema di una società disumana, incapace di provare amore, pietà, compassione. Una metafora, più morale che politica, dell’assenza di speranze nella Russia di Putin.
Russia 2017 – 2h 8′
PREMIO DELLA GIURIA A CANNES 70°
CANNES – Loveless (senza amore, o mancanza d’amore) era probabilmente il film più meritevole della Palma, per la potenza formale, il rigore morale, l’uso implacabile della macchina da presa, del paesaggio e della musica come protagonisti . Quali fossero le doti del suo autore, Andrej Zviagnitsev, lo avevamo già visto proprio qui a Cannes tre anni fa, quando aveva presentato Leviathan, potente ritratto di una Russia arcaica, nordica periferica, minata dall’alcool, in preda ad una violenza e ad una corruzione endemiche, senza speranza.
L’orizzonte qui è più ristretto ma non meno agghiacciante. Siamo in una non identificata periferia di una grande città, più Mosca che San Pietroburgo. Boris (Alexey Rozin) e Zhenja (Maryana Spivak) vivono ancora assieme al figlio dodicenne Alyosha in un moderno appartamento che stanno cercando disperatamente di vendere. Sono infatti decisi a divorziare, arrivati a quel punto dove la sola vista del partner provoca (soprattutto in lei) una crisi di nervi. Entrambi si sono già costruiti un progetto di vita per quando riusciranno ad evadere dalla prigione domestica.
Lui, più pacato, funzionario di una grande impresa, è costretto a nascondere i suoi piani ai proprietari, integralisti ortodossi pena il licenziamento (anche questa è la nuova Russia!) ma nel frattempo si è legato ad una ragazza insicura, piagnucolosa, molto più giovane e già incinta. Lei, più bella, più volitiva, è in piena love story con un fascinoso ricco uomo d’affari, figli già grandi, capace dí trasportarla in una nuova vita di agi e di glamour. Unico ostacolo, il figlio Aliosha, che, dal chiuso della sua cameretta, assiste ai loro litigi, capisce, piange di nascosto e ascolta i loro progetti (“potremmo metterlo in collegio fino a quando andrà militare…”). È il ritratto di una famiglia (e ovviamente di una società, quella russa di oggi) dove si è perso il senso dell’esistenza, dell’empatia (senza amore appunto), dove l’egoismo è la legge suprema e gli altri sono solo strumenti o ostacoli al raggiungimento dei propri obiettivi. È la fine di un amore che per Zviagnitsev è anche la fine del patto sociale su cui si è retta la società russa non solo durante il comunismo, ma anche e soprattutto prima, quando la Russia era per tutti Madre e Santa. A far da contro canto alle scene di disgregazione familiare, un continuo sottofondo di cinegiornali televisivi dell’era putiniana: guerre non dichiarate, il divorzio (!) dall’Ucraina, manifestazioni, repressione…
Ma ecco che il ragazzo (l’ostacolo!) improvvisamente scompare. È un gesto di ribellione, un modo di attirare finalmente l’attenzione di Boris e Zhenja? Oppure è stato rapito, violentato, ucciso? Comincia qui la seconda parte del film, più corale, più dilatata. Costretti a mettersi insieme per la ricerca del figlio, ma senza smettere di odiarsi e di rinfacciarsi la responsabilità dell’accaduto (magistrale la scena dell’accensione della sigaretta in macchina!) i due, preso atto dell’attendismo e quasi del menefreghismo della polizia, si affidano ad un gruppo di volontari specializzato in questo tipo di indagini (e sarà questo l’unico “personaggio “positivo del film). Inizia così un viaggio, di giorno e di notte, tra boschi e pianure gelate, spettrali fabbriche abbandonate, piscine vuote, tralicci divelti; è il mondo deindustrializzato del post-comunismo, ed è qui, come già in Leviathan, che il paesaggio, e con lui la stridente musica di fondo, assume un ruolo di protagonista e simbolo di un nulla materiale e morale. A completare il quadro, la visita alla vecchia madre di lei, alcolizzata, quasi demente, piena solo di rabbia e cupidigia. Alla fine, niente accade; il paesaggio con ruscello della scena iniziale è ancora lì, nel frattempo è primavera, nulla è cambiato ne cambierà. Neanche la possibilità di non rivedere più il figlio riuscirà a scalfire il loro egoismo. Nella allucinante scena finale Zhenja, in elegante tuta nera con su scritto “Rossya”, fa jogging sul tapis-roulant mentre alla tele scorrono le immagini dì ucraini disperati.
That is. Questa è la Russia oggi!
Giovanni Martini – MCmagazine 43