The Beguiled
USA 2017 – 1h 33′
Virginia, 1864. Negli Stati Uniti infuria la Guerra di Secessione, ma le ragazze del Seminary for Young Ladies vivono protette dal mondo esterno. Tutto cambia quando un soldato dell’Unione ferito viene trovato nei paraggi e condotto al riparo. Mentre gli offrono rifugio e curano le sue ferite, la casa viene invasa dalla tensione sessuale e da pericolose rivalità, e i tabù vengono infranti in un’imprevista serie di eventi. Sophia Coppola dirige con l’eleganza sicura e minimalista che caratterizza il suo cinema: cast perfetto, confezione impeccabile, fotografia onirica per un thriller psicologico fin troppo elegante, comunque ricco di tensione.
VENEZIA – Beneficiaria del più incredibile furto di trofeo della storia recente del Festival di Venezia (il Leone d’oro per Somewhere, graziosamente attribuitole nel 2010 dal presidente di giuria e suo ex fidanzato Quentin Tarantino), Sophia Coppola torna a Cannes col suo sesto lungometraggio e riceve un altrettanto immeritato premio per la “miglior regia”. The Beguiled è il remake di un omonimo film di Don Siegel (1971), interpretato da Clint Eastwood ed uscito in Italia col titolo La notte brava del soldato Jonathan. Entrambi tratti da un romanzo del ’66, A painted devil, di Thomas P. Cullinam.
Siamo in Virginia durante la guerra civile americana in un fatiscente collegio femminile; qui la direttrice miss Martha (Nicole Kidman), le sue insegnanti e studentesse si sforzano di mantenere un ritmo di vita regolare e confacente a giovani del loro rango: refezioni, funzioni religiose, intermezzi musicali, anche per tener lontano l’orrore dello scontro che si intuisce all’esterno. Ma il destino e la guerra fanno irruzione nella persona di un avvenente soldato nordista gravemente ferito, John McBurney (Colin Farrel), che la più giovane delle ospiti incontra durante una sortita alla ricerca di funghi (e attenzione, perché di funghi risentiremo parlare!). Portato in salvo all’interno del collegio, viene rifocillato, curato e Martha decide di non consegnarlo ai sudisti almeno finché non si sia completamente ristabilito.
Come è facile prevedere, la presenza del “maschio”, prima assente e certamente vagheggiato e sognato, scatena una ridda di sentimenti, una tempesta ormonale a vari livelli, secondo l’età e l’esperienza delle ospiti del collegio. Si andrà dalla sfacciataggine della giovanissima Alicia (Elle Fanning, già protagonista di Somewhere), che si apre il corsetto, si scioglie i capelli, all’algido, mascherato interesse della direttrice, e soprattutto allo sconvolgimento di Edvina (Kirsten Dunst, già vergine suicida e Maria Antonietta), la precettrice dal passato sfortunato, che si illude (e a cui John cinicamente lascia credere) che sia quella l’occasione per rifarsi una vita ed evadere dalla prigione dorata. Solo che, quando un’altra giovane decide di passare dai sospiri ai fatti e infilarsi notte tempo nel letto del soldato, si scatena una serie di reazioni che porteranno al doppio tragico finale.
Il “maschio”, che credeva di condurre il gioco, diventa vittima di queste “fate” trasformatesi facilmente in streghe assassine. È evidente (ed inevitabile considerando il curriculum, peraltro estremamente coerente di Sophia) che la vicenda originale viene rovesciata in una prospettiva completamente al femminile.
Mentre il film di Siegel si trasformava in una sorta di western dove un uomo solo teneva testa a un branco di donne amputatrici, incestuose (tema peraltro assente qui), demoniache e potenziali assassine, nel film di Sophia vengono assolte, sono solo portatrici di un ordine un po’ ipocrita, ma fondamentalmente sano, da ristabilire eliminando l’elemento “cattivo”. Il tutto impeccabilmente girato in 93 minuti, fotografia preziosa e patinata, in una specie di “grisaille” da pittura neoclassica, alcune buone battute, rigorosamente in francese. Dicono le note di regia che i vestiti sono stati scoloriti, le posate un po’ arrugginite… Resta l’impressione dell’inutilità dell’assunto, della prevedibilità (e, a volte, dell’eccessiva velocità e inverosimiglianza) degli snodi del racconto, della fondamentale piattezza di una visione al femminile algida e scontata. Miglior regia? Solo se per regia si intende il mestiere del filmare, e non l’originalità, la genialità e la significanza dello stesso. A questo punto, viva Lanthimos!
Giovanni Martini – MCmagazine 43