La narrazione ruota attorno a Li Xuelian, una donna semplice ma molto ostinata della Cina provinciale di inizio anni Duemila. Come succede spesso in Cina, ha fatto finta di divorziare dal marito per poter entrare in possesso di un appartamento in città, ma il marito ne ha approfittato per lasciarla e trasferirsi nell’appartamento con un’altra donna. Addolorata ed umiliata, Li Xuelian vuole fare causa al marito per cancellare il divorzio, poter divorziare di nuovo – questa volta per davvero – e non perdere la faccia. Ma la legge non contempla il suo caso: il divorzio, per quando finto nelle intenzioni, era stato già acquisito come vero dal sistema legale. La faccenda si complica quando il marito, infastidito dalle insistenze di Li, l’accusa di essere una “Pan Jinlian”, appellativo che identifica donne promiscue e che deriva dal nome di una delle protagoniste del capolavoro della letteratura erotica cinese The Golden Lotus, che nel romanzo uccide il marito (da cui il nome Bovary nel titolo inglese del film, la cui traduzione letterale sarebbe invece “Non sono Pan Jinlian”).
Wo bu shi Pan Jin Lian
Cina 2016 – 2h 80′
UDINE – Dopo aver girato i festival di tutto il mondo, grazie al FEFF 19 è stato possibile vedere finalmente anche in Italia l’ultimo bellissimo film del prolifico, poliedrico e geniale Feng Xiaogang. Vincitrice del premio come miglior film e miglior attrice a San Sebastian e del premio FIPRESCI a Toronto, campione di incassi in Cina, ostacolato dalla censura del governo nazionale, il film rappresenta una sperimentazione indubbiamente ben riuscita e manifesta le doti registiche del suo autore. Il segreto è riuscire ad unire una vicenda fortemente intessuta nel sistema sociale e burocratico cinese e una critica feroce allo stesso e alla sua inevitabile corruzione, con toni a tratti umoristici e favolistici e originali scelte estetiche della messa in scena. Il formato dell’inquadratura infatti è singolare ma ponderato: per quasi tutta la durata del film, la luce del fotogramma è filtrata attraverso un’iride, salvo alcune sequenze in cui viene abbandonato in favore del consueto formato rettangolare.
La scelta catalizza un forte fascino a(s/t)trattivo: la storia è ambientata ai nostri giorni ma per il suo carattere assurdo e retrogrado potrebbe appartenere al secolo precedente, e la forzatura dell’immagine dentro un cerchio non solo descrive una grettezza morale ma crea un senso di claustrofobia permanente. Il discorso si amplia ulteriormente a partire dalle scene iniziali, in cui il rimando alla tradizione pittorica cinese giustifica in prima istanza la scelta del tondo e la rigidità di un intero sistema rappresentativo. La tema si complica in pieghe complicate e incomprensibili e il tempo (diegetico) scorre inesorabile senza soluzione. Tutto calcolato. Così come lo sono le inquadrature, veri e propri quadri studiati con geometrica precisione. Tele in cui perdersi come in una passeggiata dentro a un museo.
Alessandro Tognolo – MCmagazine 42