TORINO – A Lullaby for the Sorrowful Mystery potrebbe essere sottotitolato “Shakespeare nella jungla”: mantenendosi fedele al suo obiettivo di raccontare, attraverso il cinema, la storia del suo popolo, Diaz prende ispirazione da un episodio fondamentale nella storia delle Filippine, la rivoluzione del 1896-1897 per la liberazione dalla colonizzazione spagnola.
Se in The Woman Who Left l’uscita dal colonialismo era narrata attraverso un racconto metaforico, qui è la Storia a fare da protagonista, ma secondo la logica del cinema di Diaz, che è quella del mito e dei sogni, pur sempre calata nel contesto vivo e sanguinante delle vicende del suo paese.
È quasi sempre notte nel film, l’oscurità pervade ogni cosa, anche nelle scene di ambientazione diurna, la rigogliosa e invadente vegetazione della jungla lascia passare solo qualche spiraglio di luce. Lamine lunghe e affilate invadono l’inquadratura dal fondo campo, l’illuminazione, chiaramente artificiale, frantuma lo spazio ingombro di elementi naturali o artificiali: architetture coloniali, rovine illuminate da fiaccole o lampioni che creano geometrie precise e surreali. La macchina da presa, soprattutto nella prima parte del film è fissa, frontale, (non è casuale la citazione della prima proiezione dei Lumiére da parte di un personaggio), l’azione è lasciata fuori campo, i personaggi entrano dai lati destro o sinistro dell’inquadratura e dialogano, leggono, recitano poesie, cantano canzoni, interrogandosi, con una recitazione alquanto teatrale, su temi shakespeariani, quali la lotta fra il bene e il male, il tradimento, il senso di colpa, la morte.
Sono personaggi in parte di invenzione, in parte ispirati a veri protagonisti della rivoluzione. Si muovono in due piccoli gruppi, che vagano per la foresta alla ricerca di qualcosa. Il primo, guidato da Gregoria De Jesus procede sulle tracce del marito, Andrés Bonifacio, emblema della ribellione, delle ingiustizie subite da un popolo intero, una ricerca fallita in partenza, portata fino alla disperazione, alla perdita del senno, pur di non rinunciare a sperare che qualcosa possa cambiare. Il secondo si sposta nel tentativo del poeta Isagani di mettere in salvo Simoun, simbolo invece dell’egoismo, dell’odio, della rabbia di chi ha tradito i suoi compagni, non per vigliaccheria, ma per aver abbracciato una linea politica differente, all’interno di quello stesso movimento rivoluzionario, senza per questo rinunciare alla fiamma che lo ha posseduto e che continua ad accenderlo fino alla fine. Sono tutti personaggi evocati per la loro forza simbolica, non a caso all’interno di ciascun gruppo vi è almeno una persona colpevole di tradimento e capace di azioni deplorevoli, a testimoniare la compresenza del bene e del male nel destino dell’umanità.
“Niente raggiunge la profondità del dubbio. Niente raggiunge la profondità dell’orrore. Quello che ho visto è la complessità dell’animo umano. Quello che ho visto è l’oscurità dell’animo umano.” Sono le parole pronunciate alla fine del film da Gregoria De Jesus.
Ciò che il film racconta è ciò che la Storia ha registrato: le violenze degli Spagnoli, i saccheggi, gli incendi, gli stupri, le lotte interne al movimento rivoluzionario, ma è chiaro che a Lav Diaz non interessano le versioni ufficiali quanto piuttosto una loro riappropriazione visiva e narrativa attraverso il cinema, dove il racconto si fa immagine.La foresta, le grotte, le rocche in cui i personaggi si muovono a fatica sono spazi reali, cui il cinema attribuisce una dimensione fiabesca e mitologica e in cui la cronaca si frantuma in racconti personali, poesie, lettere, confessioni.
A Lullaby for the Sorrowful Mystery è un racconto orale per immagini, fiabesco e violento, che prende alcune figure storiche e le trasporta in uno scenario privo di ogni logica razionale e temporale. Quello di Diaz è un cinema estremo ed esigente, affascinante ed estenuante (il film dura otto ore), ma proprio per questo autenticamente rivoluzionario in quanto capace di sottrarre la storia delle Filippine alla tirannia del tempo e della presunta oggettività.
Cristina Menegolli – MCmagazine 42